Gucci coi piedi per terra
Nel primo show post-Alessandro Michele, il brand prova a ritrovare il suo centro
13 Gennaio 2023
Lunghi cappotti, jeans oversize, blazer e berretti, bomber di nylon, oltre che una dose enorme di borse scultoree ma per lo più monocrome e minimaliste – eccezioni a parte (ed eccezioni non sono mancate, dai jeans ricoperti dal monogram fatto con i cristalli, agli stivali di vernice logati e allo sportswear) la collezione FW23 di Gucci che ha aperto la Milan Fashion Week Men’s sembra volersi emancipare dall’identità stabilita di Alessandro Michele in sette anni di esuberante regno creativo. Con una musica rock firmata dai Ceramic Dog a dare alla collezione un deciso graffio grunge, il brand sembra voler tornare con i piedi per terra, lontano da sincretismi, ibridazioni, riferimenti pop e voli concettuali. Il risultato è meno rivoluzionario di quanto molti speravano ma rimette la metaforica palla al centro, stabilendo un nuovo e più neutrale corso in attesa dell’arrivo di un nuovo direttore creativo capace di muovere il brand verso una direzione più precisa. Il risultato non è definitivo ma è sicuramente rinfrescante, come quando Alice esce dallo sgargiante e allucinatorio Paese delle Meraviglie e ritorna nel suo normale, rassicurante giardino inglese.
Come dicevamo, lo studio di design che ha firmato collettivamente e anonimamente la collezione non si è votato anima e corpo al minimalismo, inserendo guizzi di eccentricità nella forma di giacche pesantemente decorate, di stivali dai colori caramellosi ricoperti dal monogramma, tute workwear in lucido cuoio, pantaloni in vinile, mega-spalline scultoree, scaldamuscoli e un certo vibe anni ’80 che era il secondo “filone” estetico della sfilata dopo i look minimal-grunge che dominava i primi look. Un bel dettaglio sono state le lunghe gonne, semplici ma capaci di evocare quella genderlessness che con Michele era stata di così grande importanza. Praticamente assenti erano i loghi: l’identità del brand non andava riconfermata a colpi di autoreferenzialità ma attraverso simboli visivi più o meno discreti (il morsetto da equitazione dorato, i mocassini, la fascia rossoverde che richiama il menswear più aggressivo di Frida Giannini) che però non cannibalizzavano gli abiti, veri protagonisti della collezione. Il messaggio comunque era un messaggio di continuità e stabilità: se non c’è al momento un direttore creativo a cui guardare come una stella polare, il brand e i suoi talenti sono ancora qui, tangibili, portabili, uguali in passerella e in negozio senza che il concept creativo galoppi nella direzione opposta alla manifattura e alla vendita dei prodotti.
La collezione includeva, come dicevamo, pezzi più esuberanti che trovavano una collocazione forse un po’ imprecisa nel nuovo, fondato discorso identitario del brand. È chiaro che a una certa esuberanza non si può rinunciare – e quei look intendono significare che l’energia e il vitalismo di Gucci sono ancora lì, tornati allo stato di cellule staminali il cui DNA va ancora strutturandosi. In effetti, essendo stato Alessandro Michele il campione del massimalismo di Gucci, è proprio la parte più rock-chic e minimalista la più innovativa e coesa della collezione, quella capace di dichiarare con forza e sottigliezza insieme che i tempi sono cambiati e che, pur senza perdere il proprio giovanilismo, Gucci ha chiuso con bizzarrie e barocchismi ed è tornato a essere un brand ragionevole, indossabile, che vende più vestiti “veri” che concept. Questo non vale comunque a dire che il tocco di Michele sia sparito come per magia. Rimane ancora molto del moto impresso al brand dal designer romano, nei colori, nella mescolanza di glamour d’altri tempi e rudezza giovanile. L’eredità dell'ex-direttore creativo c’è ancora ma è, per l’appunto, un’eredità, il lascito di un passato recente che non di meno si trova al di qua del presente, nel novero delle “ere” trascorse di Gucci insieme a quelle di Tom Ford e Frida Giannini. Ma il futuro, senza dubbio, arriverà.