Nel 2023 dovremo decidere tra qualità e quantità
Dal cinema, alla televisione, alla moda
06 Dicembre 2022
Negli scorsi giorni, parlando della casa di produzione da lui fondata, Ben Affleck ha criticato i sistemi produttivi di Netflix definendo quella del gigante dello streaming una «catena di montaggio». Mentre solo l’altroieri The Indipendent si domandava se il successo di Mercoledì non sia una cattiva notizia che segna il trionfo della tv «usa-e-getta» definendo la serie come «adeguata televisione di sottofondo». Negli stessi giorni anche i Marvel Studios stanno affrontando un simile problema, con una serie di report e indiscrezioni fatte trapelare dalla stampa e partire dal blog Cosmic Circus secondo cui, dopo il ritorno del vecchio CEO in Disney, sia avvenuta una correzione di rotta all’interno della strategia dell’MCU: «Le nostre fonti ci informano che i Marvel Studios stanno attualmente rivalutando la loro programmazione per le fasi 5 e 6. Mentre la Fase 4 volge al termine, siamo stati informati di feedback interni negativi su come la Fase 4 è stata gestita», scrive il sito.
«Pertanto, come misura preventiva per garantire il controllo della qualità, Marvel e Disney […] sono interessati ad adottare un approccio di tipo qualitativo rispetto a quello quantitativo per queste fasi». Anche che Disney ha scritto nel suo report annuale che mira a produrre soli 40 progetti nel 2023, tra film e serie, un target più basso di quello del 2022, che prevedeva 50 progetti e che si vocifera che la nuova strategia Netflix per risollevare gli affari (solo pochi giorni fa è stato superato in numero di iscritti da Prime Video) sia riassunta nel motto Bigger, Better, Fewer. In tutti i casi, l’intrattenimento e più in generale la pop culture contemporanea si stanno confrontando con l’iper-saturazione dei rispettivi mercati – un problema che riguarda un po’ tutte le industrie, per così dire, voluttuarie e che ha degli interessanti riflessi anche nel campo della moda e in quello del beauty.
@joshgarlepp how to Netflix #fyp #foryoupage #netflix #netflixmeme #abciview #stan Working for the Weekend - Loverboy
Non è insolito che quando venga annunciata la fondazione di un nuovo brand, sia che si tratti dell’ennesima linea di cosmetici creata da una celebrità, una nuova marca di alcolici o soft drink ma anche e soprattutto un brand di moda, la reazione istintiva è dire: «Un altro? Era davvero necessario?» Nel libero mercato, in effetti, dove alla domanda deve corrispondere l’offerta, non ci sono brand necessari o meno ma brand che performano e brand che falliscono. Il che da un lato porta i produttori (sia nell’intrattenimento che nel lusso) a fare ciò che The Take definisce “micro-tailoring” ovverosia a creare un qualche prodotto per chiunque ma che, dall’altro lato, spinge anche verso una sovrapproduzione che alla lunga stanca il pubblico e genera un content sempre più standardizzato e ripetitivo (pensate a quante serie Netflix sono ambientate in un liceo, normale o soprannaturale che sia). In breve, il troppo stroppia, sulle passerelle come nei canali streaming. Uno dei casi più recenti di eccesso che si ripiega su se stesso è quello di Gucci, brand che nei sette anni della tenure di Alessandro Michele ha quadruplicato il fatturato, stretto intorno a sé una community fortissima ma che è caduto vittima di quella stessa brand fatigue di cui gli analisti hanno parlato per la produzione Marvel.
the progressive decline of fabric quality and incline of ugly fast fashion could make a girl go feral. pic.twitter.com/Ogcr4pJzi5
— sapphicsxfenty (@sapphicsxfenty) June 20, 2022
E anche se è chiaro che Netflix, i Marvel Studios e l’industria della moda siano realtà estremamente diverse tra loro, l’ideologia comune che le accomuna è quella della crescita fine a se stessa. Queste realtà apparentemente diverse tra loro convivono nella Top 100 della classifica Best Global Brands 2022, dominata per lo più da giganti della tecnologia e del banking, ma nella quale i nomi di Nike, Louis Vuitton, Chanel, Hermès e Gucci si trovano accanto a McDonald’s e Coca Cola oltre che di Netflix e Disney – una dimostrazione che si è tutti uguali in cima alla catena alimentare. Senza menzionare come solo l'anno scorso si sia parlato di "fashiontainement" per raccontare la congiuntura di moda e industria dell'intrattenimento culminata con la simbiosi di Kim Kardashian e Balenciaga e con la collaborazione del brand con I Simpson ma che aveva dominato l'intero 2021 come raccontava anche Lyst nel suo report trimestrale all'epoca.
Eppure se aziende come Apple, Pampers o PayPal (tutte presenti nella classifica) sono relativamente immuni alla brand fatigue in quanto i servizi e i prodotti da loro offerti sono necessari, diverso è il discorso per chi produce beni voluttuari: abiti di lusso, intrattenimento, food & beverage e via dicendo. E se proprio a un brand di abbigliamento è attribuita la caduta più stellare degli ultimi, parliamo di H&M, il report nota che nel 2022 «queste organizzazioni stanno costruendo un business intorno al loro marchio (in contrasto con l'approccio tradizionale di costruire un marchio intorno a un prodotto)». Lo scambio di fine e scopo qui è importante perché è proprio quest’anno che i brand di moda si sono lanciati a capofitto nella ristorazione, negli alberghi, nel beauty e in qualunque categoria non riguardasse i vestiti. Proprio i brand di lusso, però, così come i giganti dell’intrattenimento, non sono giganti inaffondabili: ricordiamo che è bastata una crescita del 9% del terzo trimestre dell’anno per far scattare i campanelli d’allarme tra gli investitori di Gucci così come il management di Netflix è andato nel panico quando gli iscritti hanno iniziato a calare e Disney ha richiamato in fretta e furia il vecchio CEO Bob Iger dopo che le azioni erano calate complessivamente del 41,4% nel corso di quest’anno. Anche qui torna il filo comune della contrapposizione di qualità e quantità: per anni la presenza quantitativa sul mercato di questi marchi, a prescindere dal prodotto, si è accresciuta a discapito dell’aspetto qualitativo. Nel caso della moda l'eccesso di capsule, di prodotti banali, di campagne e di attivazioni ha finito per sovrastare l'originalità ed eccellenza del singolo design. Evidentemente la seconda parte del 2022 è quella in cui tutte queste industrie hanno raggiunto la massa critica.
@franziskasmd Overconsumption is not a style #stopfastfashion #designerclothes The 60s - Sharon Tate
La questione che rimane, ora, è capire come si comporteranno questi brand davanti all’iper-saturazione: le indiscrezioni su Netflix e Disney mostrano che i giganti dello streaming hanno deciso di investire in meno progetti scelti meglio. Parlando con Forbes sulla diatriba tra qualità e quantità nel mondo dello streaming, la vice-presidente di Kantar, Nicole Sangari, ha portato l’esempio di Hulu: «Se si considera il tempo medio di visione settimanale per piattaforma, è Hulu, e non Netflix, ad avere una percentuale maggiore di abbonati che guardano più di 3 ore al giorno». Fidelizzare i clienti che si hanno e non allargare la base dei propri clienti sembra essere diventato il nuovo diktat anche nella moda, con François Pinault che insiste per creare un lusso più classico e senza tempo nei brand del gruppo Kering e con una crescente enfasi sui big spenders piuttosto che sui clienti occasionali.
Facciamo qualche esempio: lo scorso maggio, Isabel May, General Manager e responsabile della customer experience di Mytheresa, diceva a BoF che il 3% dei clienti producono il 30% degli introiti sulla piattaforma; nello stesso articolo si calcolava che una base clienti fidelizzata può rappresentare da sola il 40% delle vendite. È dunque probabile che con la contrazione delle spese del lusso, i brand punteranno le proprie fiches sul segmento di clientela più affidabile – questo però significa ripensare strategie di produzione e di marketing, magari cambiando radicalmente anche il processo di design. Senza parlare di come, probabilmente, la necessità di rispettare i parametri di sostenibilità degli Accordi di Parigi, finora ignorati, imporranno anche di ridurre la produzione aumentando la qualità. E se disastri ambientali e inflazione non serviranno a convincere la moda di investire sulla qualità invece che sulla quantità, forse lo farà il desiderio di sfuggire al paragone non lusinghiero con servizi streaming come Netflix.