In difesa di una moda scomoda
Cosa ci insegnano le recenti polemiche sulla minigonna di Diesel
11 Novembre 2022
Una gonna/cintura dall’effetto vissuto, talmente corta da coprire appena il didietro di una ragazza taglia 38 e solo se in piedi: il capo più amato dell’era di Glenn Martens da Diesel è già diventato un cult che cavalca la scia dell’Y2K e il fascino languido delle minigonne Miu Miu. Ma il modello è diventato anche sufficientemente virale da dare il via alla polemica: in una recensione TikTok, @ageorama sottolinea l'impraticabilità del design, specie se si considera l’inaccessibilità del prezzo, 1000 dollari, e se Paris Hilton diceva che «Le gonne dovrebbero avere le dimensioni di una cintura», il web non è sembrato dello stesso avviso. Dalla polemica che ne è emersa, ripresa anche da Diet Prada è sembrato quasi che ci sia stato un errore nel design da parte di Diesel, ma in realtà sarebbe bastato che la ragazza provasse la gonna prima dell'acquisto, invece di inserire prontamente l'item nel suo carrello virtuale. Un argomento che ritorna in auge a più riprese, quello della presunta inutilità di un certo tipo di moda, considerata - soprattutto dai non addetti - scomoda, stravagante, chiassosa, specialmente da quando i confini dell’Haute Couture e e del prêt-à-porter si sono fatti sempre più labili e alcuni stilisti hanno assunto un approccio dadaista alla stregua degli artisti contemporanei. Ma esattamente come l’arte, la moda sfida le nostre percezioni attraverso la creazione di una fantasia, di un'illusione, a volte a scapito della realtà o della praticità.
@shelbyyinghyde #stitch with @ageorama This is a Glenn Martens stan account though. #greenscreen #fashiontiktok #diesel #dieselskirt #glennmartens #luxuryfashion Sunday - HNNY
È il caso di Jonathan Anderson che tanto da Loewe quanto da JW ha apportato un approccio surrealista che si racconta tramite borsette a forma di piccione, scarpe fatte da palloncini sgonfi, felpe con pezzi di skateboard incastonati che sembrano uscire direttamente da un incidente stradale, sandali che hanno per tacco saponette, candele, rose e uova. Ma è anche il caso di Elsa Schiaparelli, forse la prima a trasporre in abiti una rivisitazione onirica della quotidianità tra trompe d’oeil, accessori fiabeschi, anelli a forma di dita e cappelli a forma di scarpa, passando per i vestiti “di ghiaccio” di Maison Margiela, l’abito spray di Coperni, i “caschi d’alta moda” di Demna Gvasalia. Operazioni a metà tra un commento sprezzante sulla banalità surreale della nostra società e la presa in giro di ciò che può essere effettivamente definito moda.
Ma non serve andare così lontano per notare quanto la moda sia scomoda: dalle minigonne inguinali di Miuccia Prada per la SS23 che ricordano il marsupio striminzito di un giardiniere tuttofare, ai cut out di Nensi Dojaka e Ottolinger, fili che stringono e tirano, sfidando la dismorfia corporea ad ogni movimento di un comune mortale. Una realtà che il genere femminile conosce da tempo, cresciuta con il mito titanico della bellezza come sacrificio e privazione, tra depilazione integrale, iniezioni facciali, diete, dolore e disagio. Nè tantomeno è necessario ritornare ai corsetti in osso degli anni '70 dell'Ottocento per sperimentare la tortura: «I tacchi alti sono piacere con dolore» era solito dire Christian Louboutin, probabilmente avrebbe detto lo stesso delle X-Pander o delle Hard Crocs di Balenciaga. Eppure oggi, con qualche costrutto patriarcale in meno e una proposta di mercato che tra l’ascesa dello streetwear e gli anni della Pandemia ha accolto la comodità come criterio guida di ogni outfit, la scomodità è diventata una scelta consapevole. Emerge ora più che mai una netta differenza tra moda e abbigliamento: la moda può essere abbigliamento, l'abbigliamento non può essere moda, e se si sceglie la prima, la scomodità è spesso il prezzo da pagare. E allora sorge spontaneo chiedersi, perché pagare questo prezzo?
È vero, comprare la gonna a cintura di Diesel significa ritrovarsi con mille euro in meno sul prorpio conto in banca e un capo che probabilmente non è neanche abbastanza lungo da coprire quanto dovrebbe stando in piedi, figuriamoci seduti. Eppure quel capo è ben più di un pezzo di stoffa che chiamiamo “gonna", è il simbolo di un’era ben precisa per il brand italiano di Renzo Rosso, di un momento di fioritura dopo anni di oblio, in cui la spinta creativa del designer di Y/project si è incastrata perfettamente con il desiderio di dissolutezza post pandemico e il ritorno dell’Y2K. Una fresca iniezione di creatività in un marchio che sembrava finito e che ora si afferma come uno dei più grandi successi della stagione, documentando la contemporaneità proprio come il set di Miu Miu aveva fatto lo scorso anno, rendendosi portavoce di un comune desiderio di libertà e leggerezza in una società oppressa dalle preoccupazioni. La moda, del resto, così come l’arte, non riguarda l'utilità, riguarda una storia che parla a chi ha le armi per capirla. Tutto il resto è abbigliamento.