Dopo Kanye e Kyrie Irving i brand sceglieranno meglio le loro collaborazioni?
Chi si mette nelle mani di una celebrity deve anche assumersene i rischi
10 Novembre 2022
Nel corso dell’ultimo mese, una serie di inattese controversie legate a dichiarazioni antisemite da parte di Kanye West e Kyrie Irving hanno obliterato due dei celebrity deals più proficui nella storia delle sneaker. Se la rottura tra Kanye e adidas ha spazzato via un volume di vendite annue che oscilla tra il miliardo e mezzo e i due miliardi di euro, portando il gigante dello sportswear tedesco a rinunciare a un deal che, stando agli analisti di Morgan Stanley, rappresentava il 40% dei suoi profitti, anche Nike ha dovuto di recente interrompere la propria polare collaborazione con Kyrie Irving – una linea che nel 2019 era stata definita da Mark Parker, allora CEO di Nike e adesso presidente esecutivo, come un fattore-chiave nel successo del segmento produttivo del brand dedicato al basket. Non si sa ancora bene a quanto ammonti la perdita monetaria subita da Nike con la rescissione del contratto di Irving ma sicuramente questa rescissione, la cui natura è così simile a quella subita da Kanye su una scala enormemente maggiore, rappresenta un segno dei tempi oltre che un monito per tutti gli altri brand dell’industria sui rischi degli endorsement. Le cose per adidas, in effetti, sono andate tanto male che non solo Harm Ohlmeyer, CFO del brand, ha ammesso che per recuperare le perdite utilizzerà i design di Yeezy senza il branding di Yeezy, mossa che farebbe risparmiare ad adidas 300 milioni di euro in royalties e marketing, anche se sicuramente non popolarissima, ma che su uno degli altri fronti della crisi che il marchio sta affrontando, ovvero il mercato cinese piagato da lockdown continui e dal boicottaggio a brand orientali, c’è stata ancora una volta una eccessiva dipendenza nei confronti degli influencer locali, insieme a un eccesso di inventario e una strategia retail caotica.
you would think of adidas was so morally and ethically disgusted at the thought of kanye’s image and cultural imprint that they wouldn’t continue to make use his extremely recognizable designs. pretty bizarre and inconsistent position. but what do i know https://t.co/Vpek1ABF9p
— tats (@tjmadd) November 9, 2022
Nel mondo dei celebrity endorsements, i crolli di popolarità di questi o quelli ambassador fanno parte del gioco. Commentando quanto avvenuto tra Kanye e adidas, il Financial Times ricorda di come la prima celebrità della storia a diventare il volto di un prodotto commerciale, ovvero Lillie Langtry che nell’Inghilterra vittoriana promuoveva il brand di sapone Pears, perse il proprio contratto dopo circa un decennio di sponsorship a causa della sua reputazione scandalosa – una dimostrazione che il sistema dell’endorsement è un gioco ad alto rischio sin dalle sue origini. Oggi tanto i rischi che i vantaggi sono centuplicati grazie alla civiltà dei social media: il volto giusto può fare accumulare miliardi a un brand, ma può anche fare evaporare ogni profitto all’apparire della minima controversia. Uno dei casi più celebri fu quello di Oscar Pistorius, protagonista nel 2013 di una campagna Nike con il claim I am the bullet in the chamber che si trasformò in disastro quando l’atleta paralimpico uccise involontariamente la sua fidanzata sparandole il giorno di San Valentino, nientemeno. L’anno scorso invece furono Louis Vuitton, Bulgari, Porsche e Lancome a doversi liberare di Kris Wu, giga-ambassador accusato di stupro. Il caso più celebre però rimane forse quello di Travis Scott che, dopo la tragedia di Astroworld, causò un completo collasso della galassia di endorsement di cui era il centro, iniziando da Dior che dovette trattenere per diversi mesi la release della sua capsule, fino a Nike che sospese le sue release. In entrambi i casi, però, è bastato solo attendere qualche mese perché le due collaborazioni riprendessero, tra l’altro con buoni risultati commerciali.
La storia, comunque, ci insegna che anche all’indignazione c’è fine e che quasi nessun anatema della cancel culture può durare – né la controversia significa sempre cattivo business. Nonostante le molte accuse che lo circondavano e il crollo della sua reputazione, Johnny Depp è rimasto testimonial dei profumi di Dior facendo addirittura aumentare le sue vendite grazie all’enorme esposizione mediatica dovuta al processo che ha coinvolto lui e Amber Heard mesi fa e ora è stato anche scelto per partecipare al prossimo Savage x Fenty show di Rihanna. Famosamente anche John Galliano è riuscito a fare ammenda dei suoi passati torti. Finora l’unico designer cancellato a non ripulire la propria reputazione è stato Gosha Rubchinskiy mentre solo lo scorso ottobre VLONE ha preso ufficialmente le distanze dal suo co-founder ASAP Bari e dal suo «comportamento irrazionale» dopo diverse accuse di violenza sessuale circolate tra 2017 e 2019. In ultima analisi, per il futuro, i brand avranno bisogno di scegliere meglio le proprie star, facendo sia in modo che i rispettivi valori siano allineati tra loro, ma anche evitando di agire come una orwelliana polizia del pensiero, snaturando la natura e la personalità delle celebrity stesse. Come ha detto a Bloomberg Neil Saunders, un analista di GlobalData Plc:
«La saga di Ye, non solo con adidas ma anche con marchi come Gap e Balenciaga, sottolinea l'importanza di vagliare accuratamente le celebrità e di evitare quelle troppo controverse o instabili. Le aziende o i marchi che non tengono conto di questo aspetto saranno colpiti, soprattutto se si affidano eccessivamente a una personalità difficile per guidare il proprio business».