Il multiverso della moda catalana alla 080 Barcelona Fashion Week
Tre giorni di full immersion nel Recinte Modernista de Sant Pau
31 Ottobre 2022
Se i brand che sfilano a Milano e Parigi, con le loro produzioni faraoniche e audience globali, sono metaforicamente i Marvel Studios della moda, il resto delle fashion week europee potrebbero essere paragonate al mondo del cinema indie: di scala più piccola, presentate a un pubblico di aficionados, ma soprattutto lontane dalla grandeur industrializzata dei big brand fashion shows, che nel tempo sono diventati gargantuesche macchine PR, le fashion week locali raccontano di una moda più avvicinabile e lenta, fatta di cooperazione, di duro lavoro, di un’immediatezza che è difficile ritrovare nelle articolate catene di montaggio in cui i grandi brand di oggi si sono tramutati. La più recente di queste è stata la 080 Barcelona Fashion Week, la cui programmazione si è svolta la scorsa settimana all’interno del Recinte Modernista de Sant Pau, spettacolare complesso architettonico che mescola gotico e art noveau, fatto di guglie ricoperte di ceramica, balconi decorati da draghi e Madonne, mosaici d’oro. Durante i giorni del programma si è visto davvero di tutto: dagli show in grande stile di Dominnico e Avellaneda; alle creazioni di brand indipendenti come Eiko Ai, Habey Club o Martìn Across; fino alle sfilate centrate sul beachwear di Gullermina Baeza, quelle concentrate solo sugli abiti da sera come Reveligion, passando per la collezione 080 Reborn creata da Firmin + Gilles usando solo abiti vintage o la collezione-amarcord dei primi anni 2000 di Custo Barcelona, che ha organizzato uno show gemello di quello visto alla scorsa New York Fashion Week.
Giudicare con lo stesso metro brand così diversi tra loro (e ce ne sono anche altri al di là di quelli menzionati) e comparare la fashion week nel suo complesso a quelle delle grandi metropoli della moda non serve a molto. Quella di Barcellona è una scena indipendente, un ecosistema forse più piccolo ma in cui i designer comunicano più da vicino con i propri team e il pubblico e in cui le presentazioni stesse sono più spontanee, meno filtrate da team di PR e commerciali, frutto di un approccio molto organico e diretto tra tutte le diverse parti coinvolte. Un brand come The Label Edition, ad esempio, si concentra su pezzi senza tempo, eleganti e quotidiani con guizzi di malizia sotto forma dei bottom in pelle – nulla a che vedere con il ben più sperimentale Larhha, il cui fascino può essere ritrovato nel concept e nella visione del direttore creativo Miguel Marin, con tutti i suoi divertenti richiami agli anni ’60, che forse un budget più alto potrebbe rendere ancora migliore. Lo stesso si potrebbe dire di marchi come EÑAUT o Simorra, entrambi dotati di linguaggio e inventiva (nel caso di EÑAUT si potrebbe parlare delle maniche strappate che diventano drappeggi, degli abiti a texture mista, dei chaps di pelle brutalisti; in quello di Simorra della tracolla di cuoio con moschettone che regge la giacca trasformandola in un nuovo elemento del look) ma certamente meritevole di essere elevato con fatture e lavorazioni più confacenti alla dimensione del lusso. Fa tutto parte del fascino della moda indie: ciò che conta è l’inventiva, l’intuito ma soprattutto la sincerità di questi lavori che sono davvero il frutto di un lavoro hands-on che, nella moda ad alto budget, non esiste nemmeno più: è la prima linea della moda, quella dove la passione per il design è più tangibile, dove tutto, in definitiva, sembra più vero ma anche ricco di inventiva, libero da compromessi, dotato di una varietà e anche di una randomness che buona parte della moda mainstream non ha più.
Tra gli highlight più eccentrici della programmazione, e usiamo la parola eccentrico nel senso etimologico di “decentrato rispetto al resto”, c’è lo stupendo progetto di design di LR3 Louis Rubi che ha presentato al pubblico la propria collezione di abiti monomisura, del tutto regolabili sul corpo di chiunque, attraverso un’esperienza in realtà virtuale a cui è seguita, subito dopo, la presentazione fisica degli abiti su manichini sospesi a mezz’aria che con le proprie forme imitavano le tipologie corporee più diverse. L’esperienza è esportabile e, come lo stesso Louis Rubi ha detto, diventerà itinerante attraverso il mondo, dal Giappone a Milano, portando in effetti un concept davvero innovativo all’interno di un’industria attaccata alla sua stessa commercialità come a un respiratore. Proprio questo progetto è il più espressivo di un’intera manifestazione che dimostra sempre di più come le community della moda europea vadano distaccandosi dall’egemonia culturale di Milano, Londra, New York e Parigi acquisendo una propria voce che diventa sempre più sicura e forte con il passare del tempo e che dimostra come il nome di “industria della moda” nasconda al suo interno non una ma molteplici realtà – un multiverso che emerge sempre di più verso la luce del sole.