Produrre cashmere è diventato sempre più difficile
Alcuni hanno interrotto la vendita di prodotti realizzati in questa fibra, mentre altri cercano vie alternative
20 Ottobre 2022
Se fino a non molto tempo fa il cashmere era considerato raro e di lusso, accessibile a pochi marchi di alta moda, nell’ultimo decennio è entrato nel circuito della moda fast-fashion, cosa che ha reso questa fibra tessile più economica e richiesta. I prezzi bassi hanno ulteriormente favorito la domanda di cashmere sul mercato, ma la maggiore produzione che ne è conseguita ha avuto grosse ricadute sull’ambiente e gli animali. Per questo molti brand stanno cercando alternative, mentre altri hanno deciso di rinunciare del tutto al cashmere perché, a questi ritmi commerciali, la sua produzione è diventata sempre meno sostenibile. In un settore con consumatori esigenti in termini di responsabilità ambientale e sociale, il cashmere è passato da essere ambito a diventare un problema per i marchi.
Sottile e morbida, questa fibra tessile viene realizzata con il pelo invernale delle capre Hircus, tipiche di alcune regioni montuose dell’Asia, tra cui in Iran e Afghanistan, ma soprattutto in Cina e Mongolia – che insieme forniscono il 90% del mercato mondiale di cashmere; mentre il nome della lana proviene dal Kashmir, regione da dove la si esportò verso l'Europa a partire dal Diciannovesimo secolo. Le particolari condizioni climatiche di queste zone, e i forti sbalzi termici tra giorno e notte, favoriscono lo sviluppo del cosiddetto “duvet” – da cui deriva il cashmere –, una tipologia di pelo che ha lo scopo di termo-regolare il corpo delle capre, proteggendole sia dalle alta che dalle basse temperature. La fibra tessile viene ottenuta pettinando a mano e una volta all’anno gli animali (con una pratica che ha origini antichissime), quando in primavera mutano pelo, ed è considerata pregiata perché pur essendo sottile offre una sensazione di caldo. Da ogni esemplare di capra Hircus però si ricavano solo dai 100 ai 200 grammi di fibra tessile: per comporre un maglione in cashmere servono circa quattro capre.
3 stages of cashmere shawl production in this 1874 painting by Bishen Das in Amritsar
— Ira Mukhoty (@mukhoty) June 8, 2020
From left to right- drawing the image, working the looms, and selling the finished product pic.twitter.com/ZQ56Hf1fRV
Il mercato del cashmere coinvolge anche e soprattutto l’Italia. La lana raccolta in loco viene spedita in apposite fabbriche in Cina, dove viene trasformata in vestiti o portata, nel suo stato grezzo, in Europa – e in particolare in Italia (il distretto di Prato è un’eccellenza in questo): qui la fibra tessile viene lavorata, per poi essere commercializzata in tutto l’Occidente. I prodotti in cashmere corrispondono a circa il 4% delle esportazioni di tutto l’abbigliamento italiano. I problemi nascono dal fatto che, per tenere testa alla domanda sempre più frequente di cashmere, è stato necessario aumentare il numero di capre per gregge nei pascoli in Asia. Questo incremento si nota chiaramente nelle esportazioni di cashmere dall’Italia, passate da 171 milioni di euro del 2008 a 305 milioni nel 2018. Oggi centinaia di migliaia di esemplari attraversano le steppe di Cina e Mongolia: perché il materiale sia eccellente, l’animale dev’essere esposto a determinate temperature e seguire una certa alimentazione, perciò gli allevatori si muovono quasi di continuo. La conseguenza è uno sfruttamento eccessivo del terreno: secondo i dati rilasciati dal governo mongolo più del 50% dei pascoli si è inaridito. Nel 2016 oltre il 20% dei pascoli era stato danneggiato gravemente, vale a dire 13% in più rispetto a soli due anni prima; nello stesso periodo l’estensione dei terreni che avranno bisogno di almeno 10 anni per riprendersi, o che potrebbero non farlo mai, è aumentata di almeno 5 punti percentuali.
Un altro problema è che la richiesta sempre maggiore di cashmere ha portato alla nascita di allevamenti intensivi, in cui si perde la mescolanza di bestiame fondamentale per rigenerare il terreno: a un certo numero di capre Hircus dovrebbe infatti corrispondere un preciso numero di pecore, al fine di mantenere fertile il terreno, perché le prime strappano la radice dell’erba, mentre le pecore no. L’ong ambientalista Peta ha poi denunciato i maltrattamenti a cui viene sottoposto il bestiame negli allevamenti intensivi in Cina e Mongolia, con un’indagine che ha avuto molta risonanza a livello internazionale, tanto da spingere H&M a decidere di abbandonare la vendita di prodotti in cashmere. Brand come Stella McCartney e Patagonia, per far fronte ai problemi di sostenibilità del cashmere, hanno scelto di non utilizzare più la fibra di lana “vergine” per i loro capi, ma soltanto quella rigenerata e ottenuta da scarti o ritagli – anche Gucci sta andando nella stessa direzione. In Italia lavora in questo modo Re.Verso, un insieme di aziende tessili toscane che recuperano materiali come il cashmere, e li trasformano in filati riutilizzabili. Nel frattempo sono nati anche brand italiani che adoperano esclusivamente lana rigenerata, come Ri-fò e Mate Cashmere.
Certe case di moda hanno provato a intervenire direttamente sulla catena di produzione del cashmere. Kering, ad esempio, attraverso il South Gobi Cashmere Project ha creato una partnership con la fondazione Wildlife Conservation Society per ridurre lo sovrasfruttamento dei terreni e per organizzare nuovi modelli di allevamento sostenibile delle capre Hircus. Oggi il gruppo di marchi luxury acquista cashmere solo da realtà locali che seguono precise linee guida di sostenibilità ambientale. Anche la Sustainable Fibre Alliance, associazione di cui fa parte Zara ad esempio, ha stilato un codice di condotta per le comunità locali, con lo scopo di preservare i pascoli e garantire il welfare degli animali.
Questo approccio però porta con sé non poche difficoltà, perché la quantità di intermediari tra il mercato occidentale e i produttori locali, nelle regioni montuose dell’Asia, sono evidentemente parecchi, e diventa complicato verificare che le direttive richieste vengano effettivamente rispettate. Certi brand scelgono così di intervenire in prima persona e in autonomia sul territorio locale. Loro Piana, che basa il suo approccio sull’eccellenza delle fibre tessili, già nel 2009 avviò un programma di allevamento sostenibile di 24mila capre Hircus in Cina, raccontato dieci anni più tardi con una serie di documentari curati dal regista Luc Jacquet. In conclusione, in un futuro della moda che si prospetta sempre di più della parte dell’ambiente, adottare pratiche sostenibili per la produzione di cashmere sembra essere diventata l’unica strada possibile per le firme che vogliono mantenere il proprio posizionamento sul mercato.