I CEO dei brand sono le vere autorità della moda?
Chi prende le vere decisioni spesso non è chi si inchina alla fine di ogni show
03 Ottobre 2022
La scorsa settimana, dopo la notizia della nomina di Daniel Lee alla direzione creativa di Burberry, il valore delle azioni del brand è salito improvvisamente del 4,4% nonostante la situazione incerta in cui versa la borsa inglese dopo la successione reale e il cambio di primo ministro. Essendo Lee un individuo a dir poco inafferrabile, il vero protagonista della storia del cambio di direzione creativo è stato il nuovo CEO di Burberry, Jonathan Akeroyd arrivato alla guida del brand lo scorso marzo dopo aver ricoperto la stessa carica da Versace. È curioso notare, in effetti, come l’era di Riccardo Tisci, designer italiano, da Burberry corrisponda alla presenza di un altro italiano, Marco Gobbetti, come CEO del marchio. Sempre Gobetti, giunto alla guida di Ferragamo nel gennaio 2022, è considerato il responsabile della scelta di Maximilian Davies come nuovo direttore creativo del brand che è stata annunciata nel marzo 2022 – sottolineando come, spesso, riposizionamenti e cambi d’immagine che hanno come volto pubblico quello degli estrosi direttori creativi dei brand, siano in realtà il frutto del lavoro di uomini e donne (anche se troppo si tratta solo di uomini) in giacca e cravatta che, nei loro impersonali e monotoni completi blu, stabiliscono le regole del gioco.
Dopo una stagione della moda che la stampa di settore ha definito, nel caso specifico di Milano, poco impattante, prevedibile e, in definitiva, eccessivamente commerciale, molti hanno attribuito lo scarso slancio rivoluzionario delle collezioni all’operato dei CEO: «Sono loro a prendere le vere decisioni, oggi», scrive Angelo Flaccavento su Business of Fashion, «e i piani che concepiscono sono assai prevedibili: attirare giovani consumatori e creare prodotti che diventino hit commerciali». Il risultato è una moda sicuramente più facile da consumare e da vendere, priva di un vero spessore e, dunque, anche priva di spontaneità. Dopo tutto, se il metro di valutazione dei direttori creativi sono le recensioni della stampa e l’entusiasmo del pubblico, il metro di valutazione dei CEO sono le vendite, la crescita dell’azienda e dei suoi margini di profitto. Il mondo dei CEO rimane comunque estremamente volatile, nel 2019 Vogue Business calcolava che la durata dei CEO dei brand di moda si attesta intorno ai cinque anni, anche se in alcuni casi di successo il CEO diventa tanto associato al brand quanto un direttore creativo. Il caso più citato di tutti è quello di Marco Bizzarri da Gucci, che insieme ad Alessandro Michele ha guidato il brand da una modesta revenue annuale di 3,5 miliardi di euro a oltre 20 miliardi di euro l’anno scorso. In effetti, se si riuscisse a guardare oltre la narrativa idealizzata di una moda controllata dai creativi, si vedrebbe chiaramente quanto la crescita di un brand sia dovuta, al di là delle collezioni vere e proprie, alla visione strategica dei CEO che, come nel caso di Pietro Beccari, a cui viene attribuito il boom commerciale di Dior che ha triplicato i fatturati in quattro anni, si occupano di investire nell’e-commerce del brand, di espandere il business nel settore digitale ma anche di continuare a investire in show e influencer marketing anche nel mezzo della pandemia – una mossa rischiosa che però ha portato le vendite del brand a crescere del 50% tra 2019 e 2021.
Sempre Marco Gobbetti, invece, al suo ingresso da Ferragamo, ha enunciato alcuni dei punti-chiave della strategia di un brand che vuole riposizionarsi dicendo: «C'è l'opportunità di creare nuova energia e rivolgersi a nuovi consumatori, e una revisione strategica dell'offerta è certamente uno degli elementi della mia strategia, un'iniezione di novità. Stiamo esaminando tutte le aree di contatto con il cliente - prodotti, negozi, punti di contatto, creatività e comunicazione - per creare molto interesse intorno al marchio, e l'offerta di prodotti è fondamentale». È chiaro che il discorso creativo è una parte fondamentale di questa crescita, dopo tutto è il prodotto che viene venduto, ma si sbaglierebbe completamente a pensare che un direttore creativo sia libero nel proprio operato e non debba rispondere a un CEO che a sua volta deve rispondere a degli investitori. Un brand, dopo tutto, non è soltanto l’estetica ma un’azienda che va tenuta in piedi, stabilendo dove e quando aprire nuovi negozi, su quale prodotto investire di più ma anche come capitalizzare la fama di un brand e via dicendo. Altro esempio di brillante CEO di un brand di moda è Remo Ruffini di Moncler, artefice della epica svolta del brand grazie a una delle più ambiziose strategie viste negli ultimi anni che, va notato, hanno investito pesantemente sulla creatività delle collezioni e sulla differenziazione creativa della proposta del brand portandolo a nuove altezze: l'idea del progetto Genius, fino al lancio dei profumi, all'apertura dello store in Galleria a Milano e al titanio show in Piazza Duomo - tutto fa parte della vision strategica di Ruffini che, per attuarla, ha collaborato con decine di diversi creativi mantenendo comunque un ruolo centrale.
Unforgettable. A cast of 1952 performers put on a show to match the stunning location of Milano’s Piazza del Duomo for our 70th anniversary celebration.#Moncler70 pic.twitter.com/y1ilZzSOtw
— Moncler (@Moncler) September 25, 2022
Il problema sorge però quando il controllo dei CEO interferisce con la creatività delle collezioni vera e propria, non tanto prendendone del tutto le redini, ma relegando le opzioni di un direttore creativo in una comfort zone commerciale in cui lo sperimentalismo e l’incisività artistica e culturale della moda inevitabilmente muoiono. Considerato come a molti brand basti ormai stampare il proprio logo su un certo item per venderne a milioni, perché rischiare con prodotti o statement che potrebbero affossarne la performance? Ma una moda che non rischia è anche una moda relativamente sterile e, soprattutto, una moda scarsamente interessata a percepirsi come produttrice e promotrice di cultura. In un mondo ideale, e in un’azienda ideale, i due fattori convivono (dopotutto, come il cinema, anche la moda è un business creativo) ma sarebbe bene che uno finisca per non cannibalizzare l’altro. A Milano un difficile equilibrio si sta ancora ricercando.