L’invisibile strategia di Dior al cinema
Capolavoro di “soft marketing” o casualità?
06 Settembre 2022
Tutti si chiedono come funziona un atelier di haute couture. Si vedono spesso foto di studi parigini dove figure in camice bianco stanno chine su tavoli altrettanto bianchi quasi fossero in un reparto di chirurgia – e per molti versi è proprio così. Eppure l’argomento della haute couture non è esattamente popolarissimo al cinema: l’ultimo degno di nota è forse Il Filo Nascosto, il dramma del 2017 di Paul Thomas Anderson, dove la moda in realtà aveva un ruolo abbastanza marginale. E per lo più i brand di moda tendono a non immischiarsi troppo da vicino con il cinema, limitandosi a fornire supporto sul lato dei costumi, come Prada ha di recente fatto con Elvis e Chanel con Spencer, ma senza mai concedere il proprio nome o apparire direttamente. Questo tipo di strategia è stato ben visibile con House of Gucci, film con il quale l’omonimo brand ha collaborato fornendo look d’archivio, godendosi il media value portato ma senza associarsi troppo da vicino a una pellicola che, in effetti, non ha trovato enormi successi con la critica. Questo tipo di tendenza però è stato sovvertito quietamente da Dior che, nello stesso biennio in cui ha trasformato la propria storica location di Avenue Montaigne in un gigantesco concept store/museo, si è inserito tangentalmente in uno storytelling cinematografico che, senza eccessivi rischi, ha messo sotto i riflettori la storia, l’artigianalità e i valori del brand. I film in questione, usciti rispettivamente l’anno scorso e quest’estate, sono Haute Couture di Sylvie Ohayon e Mrs. Harris Goes to Paris di Anthony Fabian.
Pur parlando di storie diverse entrambi i film hanno diversi tratti in comune: tutti e due i film sono ambientati nell’atelier di Avenue Montaigne (nel caso di Haute Couture la location non era quella vera e in quello di Mrs. Harris era una ricostruzione estremamente fedele), tutti e due raccontano da vicino la creazione di abiti haute couture dalla prospettiva delle petit mains, tutti e due sono stati definiti dalla stampa come dei “fairytale” (di cui effettivamente hanno il tono) e, indirettamente, tutti e due costituiscono un elogio al brand e alla progressività dei suoi valori. In nessuno dei casi, tra parentesi, i film appaiono come operazioni di marketing, sono due opere che si reggono sulle proprie gambe, eppure sembra lecito supporre che la strategia di Dior con questo tipo di collaborazione cinematografica rappresenti una sorta di esperimento per verificare le modalità in cui uno storico brand di moda possa raccontarsi esplicitamente attraverso un medium insolito senza intaccare la propria credibilità.
Le modalità di questa strategia si possono evincere dai film stessi: scartare sensazionalismi, grandi apparati storico-biografici e ostentazione di glam e mettere sotto i riflettori il lavoro dell’atelier e dei professionisti che lo popolano, raccontare storie dalla prospettiva quotidiana di outsider che si approcciano alla vita del brand con reverenza, celebrandone il mito e l’artigianalità senza mai scadere nella piaggeria ultra-commerciale. Persino il momento in cui in Mrs. Harris Goes to Paris viene ricostruita un’intera sfilata Haute Couture di Dior non sembra come una lode sperticata ma un omaggio affettuoso e filologicamente corretto. Parte della strategia, e forse suo elemento vincente, è stata anche la scelta delle produzioni, in entrambi i casi piccole e indipendenti, senza volersi necessariamente lanciare in progetti di enorme scala. Quando nel 2014 uscirono due diversi film biografici su Yves Saint-Laurent, ad esempio, si creò un’enorme confusione tra gli spettatori (la versione che vi consigliamo noi è il ben più graffiante Saint Laurent di Bertrand Bonello) che andarono a vedere un film e praticamente si dimenticarono dell’altro il quale, per altro, per la quantità di sesso e di uso di droghe in esso contenuti, attrasse le ire dello stesso Pierre Bergè.
E se l’errore dei biopic di Yves Saint Laurent fu quello di approcciarsi al proprio argomento in maniera ora blanda, ora controversa, i film Dior-centrici visti quest’anno scelgono un tono narrativo che aggira il problema di come raccontare un’icona, ovvero senza raccontarla affatto. In entrambi i film Dior e l’atelier di Avenue Montaigne sono la cornice della trama entro cui si svolge la storia, non il soggetto, e proprio per questo la rappresentazione che si fa del brand e della sua vita appaiono in una luce naturalmente positiva.