Meglio una moda normale o una concettuale?
Come i brand vogliono definire il prossimo guardaroba del futuro
06 Luglio 2022
Durante la scorsa Milan Fashion Week, alla presentazione della collezione di Aspesi SS23, alla stampa veniva spiegato che, per la sua nuova stagione, il brand milanese aveva creato più un “guardaroba” che una collezione di moda – concetto, quello del guardaroba, che si contrapponeva a quello di collezione nel senso più modaiolo del termine, e dunque essenziale, affidabile, a-stagionale. Se la collezione ha il compito di mostrare la novità, eccitare con nuove proposte, guardare al futuro e, in una certa misura, riflettere i tempi, il guardaroba è un metaforico “luogo” più passivo che raccoglie e contiene gli abiti personali e usati ogni giorno, un archivio utilitaristico ma anche una selezione di classici personali. Sempre l’idea di guardaroba è stata evocata da Miuccia Prada e Raf Simons a proposito della SS23 di Prada: «Siamo attratti dall'idea di abbigliamento "normale", dai capi classici, dagli archetipi, dal garderobe», hanno detto i due a WSJ.
E sempre di guardaroba hanno parlato sia Gucci a proposito di Gucci HA HA HA, definita dal brand un «guardaroba dei sogni», che Marcelo Burlon il quale, durante l’intervista concessa a nss magazine dopo il suo show, ha spiegato che «tutte le cose che ritrovi nella collezione sono elementi che utilizziamo anche noi. L’evoluzione più che altro è capire cosa ci piace avere nel nostro guardaroba» e anche la press release per la SS23 di Givenchy parlava di «un guardaroba contemporaneo visto attraverso lo specchio del savoir-faire». L’idea di guardaroba sembrerebbe volersi opporre a quella concezione di moda protagonista in questi giorni su TikTok e Instagram dei meme “Fashion shows be like” in cui persone random fanno finta di camminare in una sfilata indossando oggetti casalinghi come assi da stiro o sgabelli – reazione umoristica a una moda che il pubblico trova difficile comprendere e dunque apprezzare.
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La moda sa essere bizzarra e frivola – e capita che davanti a un look particolarmente avant-garde il classico non addetto ai lavori dica: «Non me lo metterei mai. Ma usciresti di casa combinato così?» E non ci sono esegesi dell’ugly chic che reggano: su un livello basilare, elementare quegli abiti vogliono essere troppo radicalmente “altro” rispetto al presunto canone della normalità – un gap che i direttori del merchandise fanno i salti mortali per ricucire. Ciò che si vede in passerella è un esempio di ciò che arriverà in negozio – e persino la stampa nota con un certo stupore quando i look di una collezione sono “indossabili” come se ormai il default di una sfilata non fosse quello di mostrare abiti ma sculture concettuali in tessuto o costumi teatrali belli per meravigliare ma intraducibili sul piano della vita quotidiana. Così come sulla strada, anche sulla passerella si inizia a percepire una divisione: da un lato la moda come progresso, con la nuova silhouette, il nuovo prodotto, la nuova tecnologia sostenibile oltre che con la volontà di sorprendere, di farsi riconoscere; dall’altro la moda come guardaroba e dunque tradizione rassicurante, come gusto dell’essenziale e, di come lo chiama Raf Simons, del normale. Il guardaroba rappresenta una scelta coesa e limitata, ma soprattutto pratica – il guardaroba è ancorato nella vita quotidiana, nella stabilità della routine. Laddove la collezione di moda può essere vasta e accogliere molte suggestioni diverse, il guardaroba è conciso e, nel senso migliore del termine, creato per armonizzare la spinta centrifuga dell’espressione individuale con la spinta centripeta dell’aspettativa sociale, la “dorata via di mezzo” di cui parlano gli stoici. Una conoscenza anche basica e parziale della storia, della moda e della fisica newtoniana ci suggerisce che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e che dunque, se la reazione contraria che abbiamo di fronte è il ritorno a un’idea di guardaroba, l’azione iniziale è l’irruzione di un senso di caos e instabilità nel nostro mondo.
Not very normcore of you to call your fashion sense normcore Brendon. Its just normal.
— Romeo Rogue (@RomeoRogue) February 9, 2022
Dopo tutto fu due anni fa, in piena pandemia, quando nessuno sapeva come tutto sarebbe finito, che l’idea di basics e di normcore tornò ad esercitare il suo fascino sul pubblico – un’idea che riguarda tanto la durevolezza e la longevità di ciò che indossiamo, quanto l’assenza di retorica e di dietrologie. Il bello di una camicia bianca, poniamo, sta nella qualità del suo taglio e del suo tessuto, nella precisione dei suoi dettagli ma quasi mai nella sua capacità di collocare chi la indossa in un box specifico. La ricerca di un “guardaroba” razionale e con i piedi per terra non vuole comunque negare l’importanza della self-expression ma ricercare un barlume di fondatezza e ragione nel mezzo dei tempi che viviamo, sempre più interessanti (come si dice, con grande senso dell’ironia, in Cina) in cui tra crisi climatica, polarizzazione politica sempre più estrema e un certo livello di sfiducia nei confronti della cultura e della società, dare per scontato il futuro è sempre meno facile. L’idea del guardaroba è dopo tutto un’idea di routine – e la routine non può che svolgersi in un contesto stabile e sereno, anche solo sul piano psicologico. E la ricerca di questa stabilità non va fraintesa come reazionario ritorno a un passato ottuso e bigotto ma come movimento in avanti per attestarsi su una nuova linea di base, su un nuovo punto fermo da cui far sviluppare, verso il suo prossimo e inevitabile passo, il progresso.
Non aiuta, ovviamente, il fatto che la cultura contemporanea e soprattutto quella delle iper-globalizzate e iper-digitalizzate nuove generazioni Z e Alpha sia frammentata in un mosaico sempre più vasto, capillare e intricato di micro-trend, micro-estetiche, qualcosa-core vari. Tutti trend che non sono legati, come lo erano in passato, a un certo momento culturale ma che sono il risultato di un browsing deliberato attraverso i vari tempi e le varie mode. Il rapporto di consequenzialità che legava un dato momento storico a una data estetica sembrerebbe spezzato e sostituito a una specie di enciclopedico repertorio di estetiche open source che sicuramente dà piena libertà e ricchezza d’ispirazioni a chi lo frequenta ma i cui presupposti storici sono del tutto arbitrari e, dunque, almeno in parte infondati. Lo stesso problema, in termini diversi, si pone nella moda: quando si compra il pezzo iconico di una certa stagione, si verifica il cortocircuito per cui l’iconicità stessa di un prodotto lo lega a un dato periodo storico, a una data collezione – con il risultato che il prodotto in questione sembra già vecchio e datato a distanza di un anno. Questi pezzi iconici ma facilmente obsoleti si contrappongono a quell’idea di “less but better” promossa da alcuni designer l’anno scorso - anche se è chiaro che lo stesso concetto di “less but better” è stato travolto da una valanga di release nel momento in cui, da quello della pandemia, si è tornati al tempo ordinario della moda. Con questa stagione una delle soluzioni a cui l’industria del lusso ha provato, timidamente, a proporre è proprio quella del guardaroba contrapposto alla collezione: in un mondo in cui non c’è più nulla di nuovo tranne i guai, rimane almeno ciò che indossiamo a rassicurarci.