La mascolinità soft dei flower boys
Dai principi buddisti alla chirurgia estetica
07 Giugno 2022
“Flower Boy”: non solo il titolo di un album di Tyler, The Creator, ma un neologismo di origine sudcoreana che racchiude in sé una wave ideologica ed estetica che oggi, dopo più di vent’anni, sta approdando anche tra i trend occidentali. Un flower boy (“kkonminam”) è un appellativo utilizzato per descrivere un ragazzo “bello come un fiore”, giovane, snello, attraente e attento al proprio look, dall’abbigliamento fino alla cura della pelle, dall’hairstyle al make-up. Fin dalla metà degli anni 2000 si ricorre a questo termine per indicare tutti quei membri di band K-Pop, attori e giovani idols, che preferiscono una presenza fisica aggraziata ai canoni della bellezza occidentale maschile, con mascelle importanti e muscoli ben definiti. I flower boys sfoggiano un’estetica innocente ed androgina che si ispira a quella dei bishōnen (“giovani bellissimi”) dei manga e anime giapponesi per ragazze (“shōjo”), ma senza manifestare tutti quegli ideali sessuali e androerotici della pop culture nipponica, con radici che si estendono fino all’epoca della Città Proibita cinese.
La storia della Corea del Sud fonda i suoi principi in una società incentrata sulla figura patriarcale, con ideologie che ruotano attorno all’iper-mascolinità, all’affermazione imprenditoriale maschile e alla forza fisica e morale. I rigidi standard di bellezza sudcoreani si affermano fin dall’epoca dei Tre Regni quando, in linea con i principi del buddismo, nella popolazione si fa strada la credenza che l’aspetto esteriore possa condizionare quello interiore dell’anima. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, in seguito all’alleanza militare con gli Stati Uniti, nella civiltà sudcoreana cominciano a spopolare le icone di moda, musica e cinema americane, e gli interventi di chirurgia plastica ricostruttiva post-bellici si orientano verso l’occidentalizzazione dei tratti esteriori.
L’idea di una mascolinità più “soft” e gentile comincia invece a emergere intorno alla fine degli anni ’90, con la diffusione di manga, comics ed anime giapponesi che dipingono un ritratto inedito dell’uomo moderno: dolce, sincero, passionale ed emotivo, il ragazzo dei fumetti diventa in men che non si dica la nuova ossessione delle donne sudcoreane. Alti, dai tratti elfici, con la pelle chiara e la doppia palpebra chirurgicamente ricostruita, i flower boys rappresentano una fascia di giovani metrosessuali, frutto dell’esasperazione dell’estetica bubblegum e del proibizionismo sudcoreano, che vietò la divulgazione della cultura giapponese fino al ’98. Un film in particolare, La Città del Sol Levante, con Lee Jung-jae - la star di Squid Game - tra i protagonisti, ritrae i primi barlumi di affermazione dei flower boys in Corea del Sud. Con t-shirt striminzite e top attillati, flip flops alla moda e camicie dalle stampe sgargianti, due amici durante gli anni della crisi finanziaria asiatica portano sul grande schermo uno stile all’avanguardia ed effortlessly fashion, pari a quello che oggi spottiamo nello streetstyle della Seoul Fashion Week.
Con l’introduzione di questa nuova sfaccettatura maschile, non c’è da stupirsi che una grande fascia di uomini sudcoreani riponga il suo interesse nell’universo del make-up e della chirurgia estetica, per assomigliare il più possibile a tutti quegli idols che fanno impazzire le donne. La Corea del Sud, ad oggi, è leader mondiale per la produzione di cosmetici e prodotti di bellezza rivolti agli uomini, un settore che negli ultimi cinque anni, grazie alla Gen Z e alla crescente diffusione dello stile genderless, è cresciuto più dell’80%. Inoltre, il Ministro della Difesa Coreana ha recentemente annunciato che durante il servizio militare (obbligatorio per almeno 18 mesi) una parte dello stipendio sarà rivolta alla fornitura di cosmetici e prodotti per l’hairstyle. Con il loro look curato ed amichevole, i BTS, la band K-pop di fama mondiale formatasi nel 2013 a Seoul, ad oggi si fanno promotori stilistici dell’ondata popolare coreana (“hallyu”) che dagli anni ’90 in poi si è diffusa globalmente attraverso Internet e i social media. Insieme a gruppi come gli SHINee e i Big Bang, i BTS ci rimandano a quell’immaginario di “cute-boys-next-door” che avevamo precedentemente identificato negli One Direction e nei Backstreet Boys, riportando in vita il format delle boy band giovanili e talentuose, idolatrate dalle ragazzine ma anche dalle mamme. Johnny Suh, membro della band sudcoreana degli NCT, è stato uno delle celebs più chiacchierate del Met Gala, con più di 240mila menzioni sui social. Con la sua pelle di luna ed il completo total black in seta, l’idolo K-Pop ha rappresentato visivamente l’evoluzione della mascolinità tipica dei flower boys, soft ed intriganti, curati fin nel minimo dettaglio.
Diametralmente opposta è la situazione in Cina, dove il governo ha recentemente bannato l’apparizione televisiva agli “uomini effeminati" (“niang pao”, “pistole femminili”), con una manovra restrittiva che, oltre ad aumentare il controllo sull’educazione e la cultura, costringe gli emittenti ad escludere dalle trasmissioni tutti coloro che rappresentano correnti estetiche considerate anormali ed immorali, lontane dalla tradizione del partito comunista cinese. Il leader Xi Jinping ha messo in atto una vera e propria caccia derisoria ai “sissy pants”, un termine dispregiativo che indica coloro che si distaccano dal concetto di virilità tradizionale, per preferire un look più neutro. Un’aspra virata che avrà conseguenze nella moda ma soprattutto nella lotta per la libertà individuale, in netta contrapposizione ai nuovi valori di fluidità ed identità di genere. Ciò che ad oggi in Cina è proibito, in Italia può essere definito “queer”, ma in Corea del Sud rappresenta da decenni una realtà consistente. Più che un trend, un pensiero comune che pone l’estetica maschile sullo stesso piano di quella femminile: quella dei flower boys è un’autentica ideologia genderless, di cui sia uomini sia donne si fanno promotori attraverso un eterno elogio alla bellezza.