I loghi dove non te li aspetti
La logomania non è finita, si è solo evoluta
03 Giugno 2022
Nel 2003 era Tom Ford a lamentarsi del branding aggressivo promosso da campagne di marketing a suon di loghi e monogram sovrapposti tono su tono. I loghi, in effetti, sono un po’ come la firma di un artista su un’opera d’arte: possono confermare l’autenticità della sua creatività e renderla immediatamente riconoscibile. Ma senza un’identità o una narrazione effettivamente coinvolgente, il rischio di perdersi in mezzo alla nutrita schiera di font accattivanti è alto. Senza tralasciare il fatto che, ancora prima dell’impatto di un logo più o meno bold, i brand dovrebbero puntare sull’obiettivo di creare un universo così identificabile da far apparire totalmente insignificante quel cumulo di lettering cubitali.
Ci sono stati dei brand che, in realtà, non hanno mai fatto uso di loghi, monogram o stampe con lettering. Margiela, nel suo processo di decostruzione strutturale dell’abito, aveva rimosso il suo nome dall’etichetta riducendola a 4 punti di cucitura bianca. Per poi ricorrere all’inserimento dei numeri - ognuno corrispondente a una precisa linea di prodotto - come sigla finale del suo manifesto creativo. Ed ecco che nella collezione FW22 della label MM6, le etichette sono state applicate lungo la manica di giacche e tailoring. Usanza tipica del mondo sartoriale, quella dell’etichetta cucita sulla manica della giacca è stata ripresa da più di un brand durante l’ultima edizione della Milano Fashion Week. Versace, al fianco di bustier e abiti di repertorio in linea con l’heritage del brand, ha preferito un tono di voce decisamente meno alto - le stampe barocche sono del tutto assenti - applicando un’etichetta su giacche e abiti.
Tool ripreso anche da Gucci che, con la FW22, ha fatto del tailoring l’espediente narrativo per annunciare la tanto attesa collabo con adidas. E, nel coordinamento di due voci da imprimere sugli stessi tessuti, Alessandro Michele ha accostato il logo di adidas ad un’etichetta Gucci applicata sui completi monocromatici o con stampe fantasmagoriche. Operazione di bilanciamento o necessità di rileggere personalmente il fenomeno delle collaborazioni che sia, Gucci ha confermato la sua intenzione di volersi riappropriare della sua storia centenaria con la collezione Cosmogonie: pochissime borse, pochissimo monogram e tantissimi vestiti. Per poter vedere il logo in tutta la sua maestosità è necessario spostare lo sguardo sugli haircut dei modelli o sui copricapo in passerella. O, ancora, il contributo di Prada nel ripensamento ossessivo del guardaroba classico ha più volte sperimentato con il riposizionamento del logo a triangolo. Se nella collezione SS22 è stato principalmente dislocato su accessori e bracciali pensati da indossare sulla parte superiore del braccio, è con la collezione FW22 che Miuccia Prada e Raf Simons hanno raggiunto la piena maturità espressiva: al fianco delle canotte con logo al centro o delle gonne stratificate su più fantasie, sono emerse silhouette avvolte da cappotti scuri dalle proporzioni esagerate con collane di traverso impreziosite dal logo Prada.
Pensato piuttosto come un gesto di riflesso all’abitudine del vestirsi, questa sorta di bijou con logo posizionato in maniera strategica risulta l’unico elemento istantaneamente riconoscibile adoperato da Prada. Segno che i brand - dalle etichette cucite sulla manica delle giacche di Versace o di Gucci e l’esperimento della collana di Prada, così come il buzz cut di Gucci Cosmogonie - stanno cercando di costruire attitudini, estetiche e stili più riconoscibili di un semplice logo. Riposizionare o spostare un logo vuol dire fare i conti con il proprio passato e mettere in discussione un operato che forse si è ritenuto per troppo tempo sacrosanto e intoccabile.