Le collaborazioni tra moda e anime secondo @sabukaru.online
Ne abbiamo parlato con Adrian Bianco e Casey Takumi Omori, editor-in-chief e senior editor del magazine giapponese
13 Maggio 2022
Negli ultimi anni il mondo della moda e quello degli anime sono entrati in rotta di collisione: dalle capsule annuali che Loewe ha dedicato ai film di Hayao Miyazaki, fino alla collezione Gucci x Doraemon, passando per la collabo Moschino x Lady Oscar, JW Anderson x Run Hany, Coach x Michael B. Jordan + Naruto, MSGM x Mila & Shiro fino ad arrivare alle collabo con Neon Genesis Evangelion di Undercover e Ground Y e risalendo fino ai primi 2000 con le collaborazioni tra Yohji Yamamoto e anime come Astro Boy e Ultraman. Questo rapporto tra anime e brand di moda, che si rinnova da sé ogni anno spontaneamente, senza cavalcare un trend vero e proprio, è diventato qualcosa di costante nel tempo. Il motivo, secondo Adrian Bianco e Casey Takumi Omori, editor-in-chief e senior editor di @sabukaru.online, è generazionale: «Gli anime sono stati riconosciuti in Occidente verso il 1990, quando Akira è arrivato oltreoceano. All'epoca, nessuno in Occidente conosceva gli anime – che non era importante come oggi. […] Ma tutti quelli che sono cresciuti con gli anime ora sono quelli che lavorano in ogni industria oggi – moda inclusa. Quindi, l’entusiasmo verso gli anime è qualcosa di naturale».
Simbolo di cosmopolitismo, nostalgia dell’infanzia, effetto della nuova importanza dei mercati asiatici, ritorno dell’estetica dei primi anni 2000 – il successo degli anime nella moda è legato a una serie di concause che, in definitiva, parlano dell’enorme rilevanza culturale di un genere d’intrattenimento che ha definito la generazione Millennial e continuerà a definire anche la Gen Z considerato come Netflix, HBO Max e Disney+ stiano tutti cercando di cavalcare lo slancio del boom degli anime avvenuto durante la pandemia. «La cosa interessante non è l’attenzione che la moda dedica agli anime», spiegano i due, «ma che gli anime siano diventati così globalmente riconosciuti e rilevanti nella cultura contemporanea».
E dai tempi di Akira, in effetti, e dal video Stronger di Kanye West di tempo ne è passato molto e non sono stati solo gli anime a moltiplicarsi, ma anche la loro fruizione che si è espansa su un gran numero di piattaforme, così come la loro produzione è diventata internazionale come nel caso di Super Crooks, uscito l’anno scorso su Netflix sotto la duplice bandiera americana e giapponese, o ancora Avatar: The Last Airbender, capolavoro d’animazione che recupera l’estetica e le tematiche degli anime anni ’90 ma è completamente americano e animato in Corea del Sud. La loro popolarità è tale che persino durante le scorse Olimpiadi di Tokyo le sigle di anime come Attack on Titan o Ghost in the Shell venivano suonate durante le gare. Ma quando quella stessa estetica deve trovare una traduzione nella moda non sempre le cose funzionano. Dev’esserci equilibrio tra i due elementi: «Se una collaborazione tra anime e moda propende troppo per la moda, potrebbe essere migliore anche senza l’estetica anime. Probabilmente la faccia Naruto non starebbe bene su una giacca dal taglio impeccabile», dicono Adrian e Casey, «Ma se una collaborazione si appoggia troppo all’estetica dell’anime, perché fare una collaborazione? Se cambiando il brand il risultato rimane lo stesso, la collaborazione non ha senso di esistere».
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— 歌姫・ローラン 生きてるなら燃えてやれッ (@Utahime_Laurant) July 26, 2021
They played Slam Dunk opening!!
君が好きだと叫びたい
Thank you so much Japan for this amazing Olympic Games with great music!!! pic.twitter.com/UfuatUciWO
Rimane dunque la questione della cultura. Gli anime aiutano la moda a vendere, ma la moda aiuta gli anime a trovare nuove audience? Il gold standard rimane, come sempre, l’insuperata collaborazione tra Undercover e Neon Genesis Evangelion o quelle storiche firmate da Yohji Yamamoto. «Probabilmente c’erano molte persone che sapevano di Evangelion ma non lo avevano mai guardato e che dopo la collaborazione hanno provato a vederlo». Ma lo stato delle cose non è sempre così positivo. «La maggior parte delle collaborazioni moda/anime oggi esistono perché l'anime stesso è già popolare. Sarebbe bello se i brand collaborassero con un anime di nicchia, ma la moda non riguarda solo i vestiti, bisogna anche pensarla da una prospettiva di business». Un business che, ci sentiamo di aggiungere, è ormai globale e per certi versi anche trans-culturale e deve dunque essere in grado di esprimere i medesimi messaggi a molteplici tipi di pubblico. Il che può diventare complesso nel caso degli anime, che sono un prodotto popolare in tutto il mondo ma sono prima di ogni cosa un prodotto giapponese: «I brand di moda e gli anime sono percepiti in modo diverso dalle persone dentro e fuori il Giappone», spiegano Adrian e Casey. «I designer hanno i loro gusti in fatto di anime, e i fan degli anime hanno i loro gusti in fatto di moda. Pensatelo come un diagramma di Venn, moda a sinistra, anime a destra. Se un marchio occidentale è in grado di capire entrambe le estremità e di realizzare una collaborazione nell'area di sovrapposizione, generalmente sarà visto positivamente dai giapponesi».