Dentro il design autobiografico e trans-culturale di NAMESAKE
Ce lo ha raccontato Michael B. Hsieh, co-founder del brand a conduzione familiare
01 Maggio 2022
«Coach Carter è un film che mi ha influenzato molto», racconta Michael B. Hsieh, direttore esecutivo e co-founder del brand NAMESAKE insieme ai suoi due fratelli. «È un film che mi ha insegnato lezioni importanti. Nulla nella vita è regalato, l’unica maniera di avere ciò che si vuole è combattere». Proprio Coach Carter è il film che ha ispirato l’ultimo editoriale che il brand ha dedicato alla propria collezione SS22 – collezione che, come tutte le altre che l’hanno preceduta, si porta dietro un peculiare mix d’ispirazioni che hanno una triplice origine: nella moda avant-garde di stampo giapponese, nella tradizione agraria taiwanese che è il paese originario dei tre fratelli e del loro padre; e infine nel mondo del basket. «Il basket è stato il nostro primo amore. […] Io e i miei fratelli giocavamo a basket per tutto il tempo. Oltre alla scuola, la mia unica memoria della giovinezza è giocare a basket con loro». Le singole vicende dei tre fratelli Hsieh e del loro padre, che ha fornito loro la scintilla d’ispirazione per la nascita di NAMESAKE, si dipanano attraverso mezzo mondo, da Taipei ai licei di Tokyo fino a Los Angeles e Seattle – è questo il teatro della storia del brand. «Ogni collezione è ispirata alle nostre esperienze di vita in queste città. […] Il nostro periodo liceale a Tokyo ha influenzato la nostra passione per le silhouette avant-garde […]. Vivere a Los Angeles e Seattle invece ci ha insegnato come creare uno stile più rilassato – che ora è diventato la nostra silhouette cadente».
Se questo mix di ispirazioni sembra eclettico (e lo è) è perché la conformazione e l’estetica del brand sono profondamente radicate nella vicenda della famiglia Hsieh. Tutto inizia con il padre dei tre fratelli, appassionato d’arte e di moda ma per cui fu impossibile, ai tempi, perseguire i suoi sogni di diventare un arredatore d’interni. Era il secondo dopoguerra, la stabilità economica promessa da una carriera nell’agricoltura (una delle principali industrie dell’economia taiwanese insieme a quella della pesca) era preferibile a qualunque sogno – ma il padre dei tre fratelli non solo non rinunciò a quel sogno, continuando a leggere e collezionare riviste di arte, di moda e di design ma, molti anni più avanti, lo tramandò ai propri figli. In cambio, Michael, Richard e Steve, dopo aver deciso di fondare NAMESAKE, hanno realizzato i sogni del padre, che oggi partecipa attivamente nella vita del brand, apparendo anche in campagne ed editoriali. Quando domando a Michael quale sia l’approccio del brand alla manualità artigianale e alle costruzioni il discorso torna nuovamente a suo padre: «La qualità delle fatture per noi è importante a causa di nostro padre. È stato lui a ispirarci a dedicare le nostre vite all’arte e alla moda. Lui ha un occhio finissimo per i dettagli e considera cose che altri non noterebbero nemmeno. […] Vogliamo che le nostre lavorazioni raccontino una storia e rappresentino la nostra vita».
La domanda sulla craftmanship derivava da una considerazione sullo stile e l’estetica perseguiti dal brand, che agli elementi derivati dal mondo del basket unisce tessuti dalla texture grezza, dettagli ispirati al mondo dell’agricoltura e della pesca in cui il padre ha vissuto per decenni e una sensibilità decisamente avant-garde che, ancora una volta, fu il padre a ispirare ai tre fratelli facendo loro scoprire Dover Street Market a Tokyo. «Vogliamo raccontare il mondo agricolo e industriale nel quale siamo cresciuti attraverso lavorazioni manuali», spiega Michael. «Ad esempio, per il knitwear, abbiamo dato nuova vita a vecchie borse da postino giapponesi. Vengono decostruiti e ricreati sotto forma di filati di carta che usiamo in tutti i nostri orli». Un’altra lavorazione di cui mi parla Michael, consiste nell’upcycling di vecchie t-shirt che vengono trasformate in fili spessi, tessuti poi per creare una stoffa dalla consistenza unica. Un’altra novità è «un tessuto simile alla lana composto da filato di ananas, tencel e poliestere riciclato», che si affianca a stoffe paper-based e tessuti di French Terry francese che imitano la consistenza della pelle.
Considerata l’abbondanza di queste e di altre tecniche, sorprende che i fratelli Hsieh siano praticamente degli autodidatti. Ma anche questo elemento si collega, come tutto il resto, alla storia personale dei tre fratelli, passata saltando da un paese all’altro. «Siamo sempre stati degli outsider», mi racconta Michael, «sia durante l’adolescenza che nell’industria della moda. Taipei non è una capitale della moda e nessuno di noi tre ha studiato moda, ma abbiamo sempre sognato di essere dei creativi. […] Non serve per forza studiare qualcosa per fare il lavoro dei tuoi sogni». Ma ancora più importante è la loro missione, che unisce insieme pratica e teoria: «Vogliamo sempre migliorare noi stessi ed elevare la cultura in cui crediamo». Cosa che non solo, creativamente parlando, porta i fratelli a cercare nelle proprie memorie per l’ispirazione di una silhouette, una texture, un capo; ma che informa anche il lato più strettamente materiale degli item, come una specie di tema unificante: «L’estetica del basket è l’ispirazione su cui costruiamo silhouette e forme ogni stagione. […] Ma le diamo un aggiornamento più contemporaneo selezionando i tessuti come se si trattasse di equipaggiamento agricolo o da pesca – tessuti che sembrano sia delle reti da basket che delle reti da pesca».