Cosa rappresentano le collaborazioni nella moda di oggi?
L'eterno dilemma tra impatto culturale e impatto mediatico
11 Aprile 2022
Negli ultimi tempi, le collaborazioni tra i vari brand di moda sono diventate una costante quasi inevitabile. Ma a quale scopo? Solo pochi giorni fa Heron Preston si era sfogato su Instagram con un post che parte così: «Can brands survive if they don’t do a collab these days?». Gli anni ‘10 hanno determinato lo svilupparsi delle collaborazioni, rappresentando il cambio di mentalità verso una scena sempre più intrisa di cultura pop. Più che la vendita stessa, i marchi si sono orientati verso un forte lavoro di branding e posizionamento di mercato in grado di influenzare il consumatore nelle sue abitudini, ma sembra che si stia raggiungendo un punto di non ritorno. Il lavoro di Virgil Abloh è stato fondamentale per creare un unicuum tra il mondo del lusso e lo streetwear. Infatti, prima del suo arrivo, molti designer e brand ragionavano solo in termini propri, senza interfacciarsi con altre realtà e culture. Il designer di Chicago ha creato una nuova scena, in grado di prediligere il valore di una community. Con Abloh questo concetto è stato completamente sovvertito, rendendo il pubblico, soprattutto le giovani generazioni, il vero motore trainante del sistema moda. Una semplice hoodie poteva sfilare in passerella ed essere considerata il simbolo di una community intera.
Nel 2017, anno che ha segnato la definitiva unione del luxury con lo streetwear grazie alla collaborazione tra Supreme e Louis Vuitton, si capì cosa si guadagnava da esse, principalmente, un ritorno d’immagine e di profitto. Il brand americano e quello francese hanno rappresentato perfettamente il consumatore moderno, amante dello status identitario tramite i suoi acquisti, e costantemente alla ricerca del fattore “wow”. Kim Jones, a quel tempo direttore creativo per LV, dichiarò per Vogue di voler “creare eccitamento per il consumatore, in un mondo dove tutti vogliono solo il nuovo, nuovo, nuovo.” Le sue parole avevano centrato il punto: una collaborazione deve cementificare la reputazione di un brand ed avvicinare una nuova fetta di pubblico. Tramite strategie di marketing mirate, i brand sono entrati di forza nella mente del suo pubblico. Possedere un capo di una collaborazione importante vuol dire essere testimoni di momenti storici, specialmente se a essi si uniscono ideali di natura politica e sociale.
Un momento fondamentale nella storia delle collaborazioni è stato il link-up di Beyoncé e Balmain, per l'edizione di Coachella 2018. In quell’edizione, la cantante era stata la prima afroamericana a guidare la line-up del festival, segnando un momento storico a livello sociale e culturale. Olivier Rousteing, direttore creativo di Balmain, venne incaricato di creare un intero guardaroba per l’occasione così da rendere indimenticabile il momento. Beyoncé x Balmain è uno, tra i tanti, degli esempi più virtuosi di collaborazione moderna, dove il prodotto racconta una storia ed una generazione intera. L’incipit creato da Vuitton e Supreme, nel 2017, era stato il passo che tutti aspettavano per l’unione del lusso e del mondo sportswear. Al di là del successo di vendite e d’immagine, si è trattato di un momento storico per l’intero sistema moda. La maison francese, affacciandosi nell’underground di Supreme, ha posto le basi per la creazione di un settore che deve relazionarsi con un prodotto in grado di evocare emozioni ed una storia.
Ma dopo la pandemia e le conseguenti ripercussioni economiche sembrano cambiate le priorità, quando si parla di collaborazioni tra brand. Molte delle recenti collaborazioni sono un esempio evidente. Non abbiamo un reale storytelling dietro essa, ma semplicemente la volontà di soddisfare le richieste del mercato: possedere un prodotto iconico dello sportswear, come la tracksuit adidas, con l'endorsement del mondo luxury. Il senso delle collaborazioni tra lusso e streetwear si gioca proprio qui: rendere questi prodotti status symbol accessibili ad un pubblico sempre più vasto. E ciò comporta di dover presentarsi con un range di prezzi a metà tra i due mondi. Allo stesso tempo, i brand del lusso dovrebbero mettere da parte il loro DNA opulento e concentrarsi nel creare prodotti realmente intrisi di significato. Come scritto da Christopher Morency su Highsnobiety, lo scorso giugno “Il prodotto rimane non il mezzo ma il fine per l'interazione consumatore-marchio che spesso si trova nei marchi di streetwear.”
Yeezy x Gap engineered by Balenciaga, Dior Homme x Cactus Jack, Birkenstock x Manolo Blahnik, Burberry x Supreme e Fendi x Versace sono altri esempi che rimandano a questo tema: qual è il valore realmente apportato da una collaborazione, oggi? Nel caso di Yeezy x Gap, l’approccio verso Kanye West da parte di Gap si sta rivelando un’arma a doppio taglio: la collaborazione è stata stimata intorno al miliardo come valore economico ma il guadagno in termini di notorietà per Gap sembra essere troppo legato al personaggio stesso, trascinandosi dietro i suoi comportamenti controversi e discussi sui social. Un'altro esempio di questa instabilità, la collezione Dior x Cactus Jack, a seguito dei tragici eventi all’Astroworld Festival, ha impedito l’uscita della stessa causando un danno economico di certo non indifferente. Nel caso di Fendi by Versace il primo risultato è stata la viralità: il Media Impact Value (metrica che misura l’impatto di un brand su tutti i canali comunicativi) generato dalla collaborazione, secondo Launchmetrics, si aggirava intorno ai 129 milioni di dollari. Non abbiamo avuto nuovi prodotti che potessero raccontare una storia o un messaggio d’influenza sociale, ma solo una ricerca per far parlare di sé ovunque. L’eco-sistema della collaborazioni ha diviso chi ne sta beneficiando a pieno regime e chi, invece, non vede di buon’occhio questo tipo di business.
Because Fendace wasn't enough...get ready for Fendi x Skims. Now we just have to wait for Balenciaga x Yeezy and the collaboration universe will have come to its ultimate end: https://t.co/yyplrWQifx
— Vanessa Friedman (@VVFriedman) October 25, 2021
Sarah Anderlman, founder di Colette, in un’intervista per Vogue dello scorso gennaio, si poneva a favore delle partnership con un concetto alla base, condannando “le collaborazioni che non hanno senso. I marchi di moda stanno cercando il prossimo grande colpo. Capisco perché e abbiamo la nostra parte di responsabilità - a Colette volevamo novità ogni settimana - ma questo provoca molti danni. Abbiamo bisogno di più prospettiva e di fare il prodotto giusto". Lo scopo di ogni collaborazione di successo dovrebbe essere il mettere in luce i punti di forza di entrambi i brand, cioè la loro identità che li distingue univocamente. In un’intervista per Hypebeast, Joe Grondin, Senior Manager of Global Collaborations per New Balance, ha spiegato il concetto che dovrebbe spingere ad una collaborazione: “Stiamo solo cercando di occupare quante più sottoculture possibili, e scegliendo i marchi più autentici per farlo. [...] Quando sei in grado di mostrare ai consumatori qualcosa che non hanno mai visto prima, è spesso più d'impatto che collaborare con un marchio che hanno visto sul loro feed negli ultimi dieci anni. Questo elemento di scoperta è una parte massiccia della nostra strategia".
Il perseguimento di una viralità mediatica e commerciale sembra l’unica motivazione pensabile dietro a molte delle recenti collaborazioni. E, inevitabilmente, entrambe le parti della partnership finiscono per influenzare la propria brand awareness e l’immagine pubblica. Oggi, è fondamentale “restare rilevanti” su un mercato in continua evoluzione con prodotti in grado di veicolare l’identità dei vari brand. Con l’aumentare di queste collaborazioni sempre più slegate dal lanciare dei reali messaggi d’impatto, e con il Metaverso pronto a dominare il futuro prossimo, il mondo della moda sembra voglia ambire ad aumentare il proprio pubblico con l’unico scopo di restare rilevanti a tutti i costi. Il Media Impact Value, in questo contesto, rimane il punto di riferimento più importante nel definire il successo o il fallimento di una collaborazione. Le collaborazioni hanno mostrato l’importanza di avere un branding forte, sotto ogni punto di vista, ma che rischia di essere banalizzato in eventi senza una reale visione dell’obiettivo, cioè far veicolare dei messaggi che portino il pubblico ad immedesimarsi nei marchi e nei suoi prodotti. Nell’economia moderna, un brand accresce il proprio potere aspirazionale se crea un capitale culturale di spessore senza seguire i cicli delle tendenze.
Da ciò, possiamo trarre un messaggio fondamentale: il prodotto deve richiamare l’identità del pubblico di riferimento. Non basta più spingere sul fattore “coolness” per rendere una collaborazione appetibile. L’epoca moderna ci insegna a porre al primo posto le dinamiche sociali e culturali per diventare dei brand amati. "I grandi marchi possono essere molto visibili nell'amplificare i piccoli marchi dando loro una mano e una piattaforma, il che può aiutare la percezione che i consumatori hanno di loro", dice Kathryn Parker, Senior Associate in luxury goods research per Jefferies, al Financial Times. "Quando i millennial e la Gen Z decidono da quali marchi comprare, pensano molto ai valori piuttosto che ai soli prodotti e alle campagne di marketing". Le collaborazioni moderne sono lo specchio della direzione intrapresa da un brand, sancendo il successo o il fallimento di essa secondo dei parametri precisi. Uno di questi è sicuramente il coinvolgimento della community, attraverso esperienze offline e online di valore, e sfruttando queste occasioni per far emergere nuove menti creative.