Cosa abbiamo imparato dalla prima Fashion Week nel Metaverso
Imitare la realtà forse non è la strada migliore per farcela
05 Aprile 2022
Se c’è una conclusione chiara che abbiamo potuto trarre dalla prima Metaverse Fashion Week di Decentraland è che la maggior parte della moda virtuale non ha un bell'aspetto. Nell’evento che si è svolta dal 23 al 27 marzo, brand come Dolce & Gabbana, Elie Saab, Etro, Tommy Hilfiger e Hogan oltre agli emergenti Imitation of Christ, Doundas e Auroboros, hanno preso parte a sfilate virtuali con abiti digitali indossati da avatar e hanno presentato negozi pop-up in cui acquistare NFT, ma non sempre i risultati sono stati quelli sperati. L'abbigliamento presentato soffriva spesso di effetti visivi lo-fi, che ricordano i videogiochi dei decenni passati e non appaiano particolarmente appetibili per un settore che vive di immagini. È un dato di fatto che non siamo tecnologicamente pronti all’ "iperrealismo digitale’’, un traguardo a cui arriveremo probabilmente tra anni e per il quale Meta sta assumendo team preposti. Pertanto ad oggi ogni tentativo dell'industria della moda di trasporre pedissequamente una collezione fisica in una versione virtuale è perso in partenza, dal momento che è impossibile riprodurre tessuti e volumi così come appaiono nella realtà e il design perde spesso il suo appeal. Il risultato? Alla Metaverse Fashion Week, le sfilate erano molto meno interessanti e ben eseguite delle sfilate reali e i negozi pop-up che imitavano quelli fisici erano spesso noiosi.
Allo stesso tempo, forse, quello che alcuni brand ci hanno dimostrato nel corso dei mesi che hanno contraddistinto la ‘corsa al metaverso’ è che non c’è alcun bisogno di essere realisti quando si tratta di virtualità. Le migliori esperienze digital fashion spesso non imitano affatto la realtà. È il caso della capsule di artwork lanciata da Hogan, che ha deciso di invitare 5 digital artist per dare una chiave personale al modello iconico del brand, o come nel caso di Dolce&Gabbana, che per la sua sfilata virtuale ha optato per avatar dalle sembianze stravaganti e animali, e così come il videogioco di Gucci Vault in cui l’avatar di Alessandro Michele incontra Wagmi-san, 'artigiano digitale' noto per la creazione di oggetti ambiti nel suo Negozio 10KTF. Mondi immaginari e personaggi fuori dal normale, con un'estetica spesso cartoonesca, sono i live motive del Metavarso di Gucci, che, sia nella recente collaborazione con Superplastic che nel giardino ‘fatato’ in Reblox, si è completamente allontanato da ogni riferimento familiare alla ricerca di qualcosa di nuovo.
Sembra sempre più probabile che i mondi virtuali diventino un importante canale di connessione con la prossima generazione di clienti. In un sondaggio rappresentativo a livello nazionale tra i consumatori statunitensi dalla Gen-Z alla Gen-X (di età compresa tra 15 e 56 anni) condotto da BoF Insights, il 72% ha affermato di aver trascorso del tempo in uno spazio virtuale negli ultimi 12 mesi, che il gioco è stato il punto di ingresso più popolare e che la loro identità digitale ha costituito un fattore importante. Quindi è comprensibile che i marchi di moda siano ansiosi di iniziare a sperimentare, soprattutto ora che i costi associati sono ancora bassi, evitando il tipo di pensiero conservatore che ha rallentato il loro approccio all'e-commerce e ai social media. "Il web3 e il Metaverso servono come complementi alle attivazioni di moda IRL" - ha detto Vogue Giovanna Graziosi Casimiro, responsabile della Metaverse Fashion Week - "Invece di mettere le due cose una contro l'altra, i marchi dovrebbero abbracciare entrambi gli spazi e usarli per amplificare la narrazione del loro marchio e raggiungere un nuovo pubblico". La storia ci insegna che invece di pensare al Metaverso come la naturale estensione della realtà, i brand dovrebbero prendere alla virtualità come un’occasione per "modernizzare la fedeltà” dei customer costruendo una narrazione finalizzata a rinsaldare la presa sulla propria community oltre a crearne una nuova. Una via di fuga, dunque, dalla realtà piuttosto che una sua pedissequa rappresentazione.