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Perché definire Virgil Abloh un “hip hop designer" è razzista

Il controverso omaggio dei Grammy

Perché definire Virgil Abloh un “hip hop designer è razzista Il controverso omaggio dei Grammy

La scorsa notte i Grammy hanno onorato la memoria di Virgil Abloh, attraverso uno dei suoi classici segmenti “In Memoriam”. Non era un caso che Virgil venisse celebrato durante una serata così importante per la musica: dalle sue performance da DJ alla direzione creativa di album che hanno fatto la storia, fino a “plasmare il futuro degli artisti rap” e creare un nuovo ponte tra la rap industry e quella del lusso, la complessa e ramificata legacy di Abloh è andata ben oltre i prodotti che lui stesso ha concepito. I Grammys però, come spesso accade, hanno deciso di accontentarsi delle etichette, definendo Virgil Abloh un “hip hop designer”. I primissimi commenti sui social media hanno raccontato soprattutto la delusione per quell’etichetta: «Virgil è stato direttore creativo di LV, owner di un brand, architetto, artista contemporaneo e tante altre cose. Smettere di sminuire quest’uomo», è stato il tenore dei tweet assieme a cose del tipo: «non c’è niente di sbagliato nel definirlo un “hip hop designer”, ma Virgil era molto più di questo». In realtà qualcosa di profondamente sbagliato c’è in quella definizione: quella definizione è razzista

Nel suo discorso di accettazione del Grammy per Miglior Rap Album del 2019 per IGOR, Tyler, The Creator aveva contestato all’Academy il suo costante inserimento nella categoria rap e urban, con particolare riferimento a quest’ultimo termine: «Odio che ogni volta che noi - e per noi intendo quelli che somigliano a me  - facciamo qualcosa che influisca sul genere o qualsiasi cosa lo mettano sempre in una categoria rap o urbana. Non mi piace quella parola 'urbana' - è solo un modo politicamente corretto per pronunciare la n-parola». Il discorso di Tyler era stato condiviso non solo da Sean Combs, che aveva parlato di una ricorrente mancanza di rispetto da parte di tutte le academy verso la black art in generale, ma anche dallo stesso Virgil Abloh. Re-postando sui suoi social l’intervento di Tyler, Virgil Abloh aveva detto di provare gli stessi sentimenti quando sentiva pronunciare la parola “streetwear” e la vedeva costantemente e unicamente associata al suo lavoro. 

È dunque abbastanza paradossale che due anni più tardi venga scelta proprio un'etichetta del genere per ricordare la vita e l’opera di uno delle menti creative più influenti dell’era moderna. Non è “offensivo” essere ricordato per un individuo - tra l’altro nato e cresciuto nel genere - come un “hip hop designer” (qualunque cosa significhi): è anzi estremamente interessante che l’influenza del genere sia talmente potente da poter essere applicata a qualsiasi cosa. È svilente che il sistema academy - composto da una maggioranza di persone bianche - non abbia gli strumenti per comprendere quanto però profondamente razzista, oltre che classista, possa essere incasellare Virgil Abloh in una categoria che neanche esiste, solo per semplicità interpretativa e per facilità di comprensione del grande pubblico. Una delle argomentazioni che potrebbero essere utilizzate a favore dell’Academy è quella della effettiva appartenenza di Virgil al mondo hip hop, per cui ha curato la direzione artistica di più di un album di successo (nel 2011 Virgil fu addirittura candidato ai Grammy per “Best Recording Package” per Watch The Throne). Ma provate a chiedervi una cosa: cosa sarebbe successo se al posto di Virgil Abloh ci fosse stato un qualsiasi designer bianco?