La curiosa seconda vita dell'emocore
«I fell in love with an emo girl»
29 Marzo 2022
Quando parliamo degli emo, ci riferiamo all’ultima vera subcultura giovanile che è stata in grado di coinvolgere un’intera generazione - una subcultura che non rappresenta solo un lontano ricordo a metà tra cringe e nostalgia, ma un intero linguaggio estetico capace di evolversi guadagnandosi un enorme following che non accenna a scomparire col tempo. Le origini del termine “emo” sono da rintracciare nell’emocore, un sottogenere dell’hardcore punk, la cui principale peculiarità risiede nello spiccato interesse verso le emozioni e i sentimenti, che prende piede negli Stati Uniti intorno agli anni’70 e ‘80, raggiungendo il suo culmine durante i ‘90. I primi gruppi emocore sono gli Embrace e i Rites of Spring ma il massimo esponente di questo nuovo movimento è Ian MacKaye, il cantante dei Minor Threat, un gruppo che nonostante la breve carriera ha avuto una grandissima influenza all’interno della scena, tanto da essere considerato persino rivoluzionario. La sottocultura che si strinse intorno a queste band erano adolescenti accomunati dalla necessità di sentirsi parte di una community. Questa aggregazione di giovani nello specifico fondava le sue basi nella ricerca delle emozioni: la depressione e il pessimismo, molto spesso, sono i loro tratti più rappresentativi. I loro colori, il nero dei capelli e dell’eyeliner, il blu dei jeans e dei capelli tinti, gli occasionali tocchi di rosso e il metallo di borchie e piercing.
Distaccati dalla realtà e disinteressati al giudizio altrui, la subcultura emo è stata, insieme a quella dei metalheads, la più temuta dalla società “adulta”, rendendo i suoi membri ancora più esclusi e incompresi. Proprio gli emo furono i soggetti di numerosi episodi di panico morale negli anni - il momento più notevole si ebbe nel 2008 quando il Daily Mail pubblicò un articolo titolato Why no child is safe from the sinister cult of emo assegnando alla subcultura la colpa del suicidio di una tredicenne negli Stati Uniti, qualcosa successo già negli anni ‘80 con la musica dei Black Sabbath e ancora negli anni ‘90, dopo la strage di Columbine, con la musica di Marilyn Manson. Nonostante ciò, gli emo hanno fieramente continuato a dare voce ai loro pensieri tormentati in maniera autentica e libera. Se pensiamo al loro stile, i ragazzi in particolare, sempre più stanchi di dover rispettare i modelli di mascolinità mainstream, hanno sperimentato un’estetica androgina. Il look maschile e femminile diventa intercambiabile: il colorito rigorosamente pallido, i capelli fino alle spalle scuri portati con un ciuffo sempre lungo e piastrato per nascondere uno o entrambi gli occhi, l’eyeliner nero per rendersi sessualmente ambigui.
Eppure, al contrario di quanto molti pensano, la subcultura non si esaurì un decennio fa ma trovò un modo di evolvere negli anni. Nel corso dell’ultimo decennio la musica, l’abbigliamento e lo stile della scena emo sono cambiate, riuscendo ad adattarsi al nuovo mercato della Gen Z, estremamente ricettivo al cambiamento ma anche, come gli emo “originali” desideroso di definire e costruire la propria identità. I tempi però sono cambiati: l’estetica emo non viene più considerata ambigua o oscura, ma uno stile, un’estetica - qualcosa che non coinvolge direttamente gli aspetti morali ma segnala l’appartenenza a una “scena”. Un’intera generazione di artisti, tra l’altro, ha dichiarato il suo amore per questo genere: da Matty Healy dei The 1975 che si è autodefinito “the Emo Lord” ad Halsey che ha detto di amare i My Chemical Romance.
Anche nella cultura pop e televisiva le propaggini della cultura emo sopravvissero: Effy di Skins o Maeve di Sex Education sono tutti esempi di look adiacenti (sia visivamente che tematicamente) a quel tipo di stile - incarnato, nella sua rilettura per la Gen Z, soprattutto da cantanti come Phoebe Bridgers e Billie Eilish, con i suoi capelli tinti, gli occhi pieni di eye-liner e le cinture borchiate. Proprio Billie Eilish ha manifestato nei primi anni della sua carriera un’attitudine emo riscontrabile sia nella scrittura malinconica dei suoi testi, che nei look e nel make-up: sguardo a mezza palpebra che non si stacca mai dalla telecamera, capelli tinti e decolorati, chokers, chunky sneakers borchiate. Lo scorso weekend, alla cerimonia degli Oscar, dove ha vinto il premio per la Migliore Canzone, Eilish ha mantenuto la fedeltà all’estetica emo presentandosi in un lungo abito nero di Gucci. Anche per Phoebe Bridgers, anch’essa cantante tanto legata a Gucci da sfilare durante lo show Love Parade di Los Angeles, l’insistenza su tematiche molto emocore passa tanto dalla produzione artistica che dallo stile personale - basti pensare all’abito Thom Browne indossato dalla cantate ai Grammy dello scorso anno decorato dal ricamo all-over di uno scheletro.
Considerando l’importanza che la musica sta rappresentando per il ritorno di questo stile, anche in un’era dominata dall’hip-hop gli artisti americani sono tornati a riflettere e dipingere una regressione collettiva verso l’angoscia adolescenziale. A volte può essere qualcosa di superficialmente estetico, come nella canzone Emo Girl di Machine Gun Kelly e WILLOW. Ma già nel passato recente e recentissimo la scena musicale non ha abbandonato questa fascinazione verso gli aspetti più malinconici della vita: dalla sadness aesthetic di Yung Lean, ai Paramore in tendenza su TikTok, per non parlare di Avril Lavigne riconsacrata a reginetta e-girl al fianco di Travis Barker.
Questa wave, scalzata qualche anno fa dal boom dell’hip-hop, oggi è tornata sotto le vesti del cosiddetto “emo rap”. Ciò che accomuna questi due mondi sono i sentimenti condivisi: tristezza, rabbia, malessere e salute mentale precaria - il tutto unito ad un output musicale ibrido, dalla vibe malinconica ma anche spensierata. C’è chi ritiene che il padre di questo genere musicale sia Kid Cudi, che ha trattato temi emocore nel suo album Man on the Moon: The End of the Day, pubblicato nel 2009, e spesso criticato per il suo stile caotico e i testi nichilisti sospesi però su note distese alimentate da beat e sample provenienti dal punk/rock degli anni 2000.
L’emo rap ha il pregio di ibridare generi diversi e tentare un racconto più veritiero della realtà, un immaginario che riesce a mischiare toni colorati alle ombre di un’esistenza in bilico. E purtroppo, parlando di vite sospese e ormai perse, gli esempi più rappresentativi di questo arcobaleno in bianco e nero sono Lil Peep, XXXTentacion e Juice WRLD. Il loro immaginario era, ed è, chiaro e ben definito: il malessere interiore che hanno vissuto è riuscito ad attirare l’attenzione di fan da tutto il mondo ed è stato in grado di empatizzare con il prossimo, facendolo sentire ascoltato e accudito. Il filone è poi proseguito unendoe emorap a cloudrap con artisti come Yung Lean e il collettivo Sad Boys, i primi a farci vivere l’oniricità della vapowave senza tralasciare l’introspezione emotiva. Definire l’estetica e lo stile di questo genere non è semplice, poiché intrinseco di infiniti sottogeneri, un’esperienza multisensoriale nata nell’era caotica di internet. Nel panorama italiano, invece, possiamo identificare il primo pezzo da solista di Side Baby, Medicine, uscito ormai quattro anni fa, come la perfetta rappresentazione di questa scena. L’affermarsi di una nuova scena risiede poi anche nelle canzoni di tanti esponenti della seconda generazione trap, come Sxrrxland, TauroBoys e Pretty Solero, primi portavoce delle istanze cloud ed emo.
Possiamo quindi dire che l’universo emo di oggi non è più, solo, quello dei Fall Out Boys e dei Tokio Hotel, o ancora dei Dari e dei Vanilla Sky, per citarne gli esponenti italiani. La musicalità, così come lo stile, hanno subito un cambiamento adattandosi alla scena pop attuale. MySpace è stato rimpiazzato da TikTok, popolato da e-boys ed e-girls, dove parlare di salute mentale e abuso di farmaci equivale a parlare del proprio ascendete zodiacale. Argomenti che sono stati stigmatizzati ed etichettati per anni, finalmente hanno trovato un posto nel mondo e hanno acquisito la loro meritata importanza. Grazie alla sadness aestethic e ai suoi esponenti, il senso di identificazione suscitato da anni dalla scena emocore è inevitabile ma, soprattutto, inarrestabile.