La moda impegnata del mondo post-Covid
Riconoscere la realtà e interpretarla
11 Marzo 2022
Il fashion month si è appena concluso con gli ultimi show di Parigi facendo emergere chiaramente come il lato più creativo dell'industria sia uscito dall'era del Covid con una coscienza politica più viva che mai. Prima della pandemia molti brand si erano sforzati molto per creare collezioni capaci di reagire o comunque trattare i temi sociali dell'inclusione o della salute mentale rimanendo fedeli ai propri codici estetici - ma il discorso politico era percepito come qualcosa di inerentemente rimosso dalla creatività vera e propria e solo pochi nomi erano capaci di attraversare il confine tra i due ambiti. Durante quest'ultima stagione, invece, un numero assai più significativo di designer hanno raccolto la sfida di parlare delle issue del mondo reale: dopo due anni di pandemia globale e l'inattesa quanto tragica invasione russa dell'Ucraina, le maison di moda, in particolare a Milano e Parigi, hanno colto l'opportunità di impegnarsi in una conversazione che riguardasse gli eventi mondiali più attuali.
L'evento più potente e discusso è stata senza dubbio la sfilata che Demna ha imbastito per Balenciaga, che ha reso omaggio al popolo ucraino dalla sua prospettiva di rifugiato georgiano in Germania durante la guerra in Abkhazia nel 1993. Pierpaolo Piccoli, invece, ha adottato un approccio diverso, con l’ultima sfilata di Valentino interamente colorata di una tonalità hot pink e aperta dalla sua voce fuori campo che ha letto una dedica d'amore al popolo ucraino: «Vi vediamo, vi sentiamo, vi amiamo perché l'amore è sempre la risposta». Da Hermès, la direttrice creativa Nadège Vanhee-Cybulski ha parlato di sex positivity con una collezione dicendo che «il sesso è qualcosa di naturale, non bisogna vergognarsene», mentre da Loewe Jonathan Anderson ha esplorato le tensioni sociali di oggi attraverso il surrealismo in una collezione simbolica costruita attorno alle ‘torsioni’ di un palloncino: «Un palloncino crea tensione, scoppierà, non durerà per sempre», un approccio stravagante condiviso da Alessandro Michele, che ha basato lo spettacolo di Gucci sul concetto di specchio come potenziale canale di espressione ciò che siamo e di ciò che vorremmo essere. Gli stilisti e le case di moda sono sempre stati molto cauti riguardo a se e come affrontare temi d'attualità per paura di contraccolpo da parte dell’opinione pubblica, ma oggi è evidente che sulle passerelle il discorso politico è più vivo che mai.
Nel 2000, la sfilata "Clochard" di John Galliano per Dior è stata una delle più controverse, in quanto collezione di alta moda ispirata ai senzatetto di Parigi per la quale lo stilista è stato ampiamente accusato di banalizzare e mercificare la povertà. Anche Gucci con la collezione Resort 2020 ha voluto sostenere il diritto di scelta delle donne in mezzo alle lotte contro il divieto d’aborto in America, Demna per Balenciaga nella primavera del 2020 in sfilata ambientata in una camera in stile parlamentare a rappresentare l'allegoria del potere durante i colloqui sulla Brexit, mentre gli spettacoli di Telfar affrontavano con perspicacia ciò che significa essere neri in America oggi. Queste stagioni, dal 2018 al 2020, hanno rappresentato il perno dell'industria nella direzione della consapevolezza sociale, e la pandemia, i movimenti Black Lives Matter e altri eventi mondiali altrettanto significativi sono stati senza dubbio una spinta a trovare modi nuovi per esporre e interiorizzare tutto quello che stava accadendo.
Sebbene si richieda all’industria della moda di utilizzare sempre più la propria voce, ciò non diminuisce i rischi nel farlo. La sfilata SS20 di Gucci, nel tentativo di mostrare come la biopolitica ci colpisce e ci limita come società, ha finito per scatenarsi contro una protesta per aver glamorizzato la salute mentale, a dimostrazione di come molte volte affinché un marchio trovi la giusta maniera di esprimersi circa alcuni temi caldi è necessario procedere per esperimenti. Il fatto che ci sia un crescente livello di consapevolezza sociale e politica che si intreccia alla creatività dei designer dimostra che viviamo in un'epoca che richiede ai marchi una posizione più ferma che mai in campo sociopolitico oltre che come la concezione della moda come forma d'arte si sia evoluta nell'ultimo decennio. Proprio dieci o venti anni fa, infatti, tali prese di posizione politiche non avrebbero avuto la risonanza che hanno oggi. Se in passato si presumeva che l'industria non avesse gli strumenti, la capacità o la sofisticazione per parlare di questioni serie attraverso le collezioni di moda, oggi, come risultato di una crescente responsabilità sociale, ci si aspetta quasi che i designer e i direttori creativi agiscano come artisti, non solo come creatori di vestiti, ma piuttosto creativi complessi dotati delle capacità artistiche necessarie per riconoscere la realtà e interpretarla tramite una riflessione o una fantasia di evasione. Dato che più marchi hanno visibilmente fatto un passo avanti per ricoprire questo ruolo nella sua interezza, ci si aspetta che questo approccio continui e che, sebbene rischioso, sia essenzialmente di benefico in qualche modo nel promuovere una conversazione politica significativa all'interno dell'industria.