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Perché il debutto di Matthieu Blazy da Bottega Veneta ha sorpreso tutti

La collezione è stata forse la più discussa di questa fashion week

Perché il debutto di Matthieu Blazy da Bottega Veneta ha sorpreso tutti La collezione è stata forse la più discussa di questa fashion week

Il debutto di Matthieu Blazy alla guida di Bottega Veneta nei giorni di chiusura della Milan Fashion Week era forse uno degli show più attesi della stagione: dopo il trambusto dell’addio di Daniel Lee, la curiosità suscitata dal vedere nominato un giovane designer dal ricchissimo pedigree era alle stelle. Ma tutta questa attesa può mettere un direttore creativo in una posizione difficile. Se Blazy avesse replicato troppo da vicino il lavoro di Daniel Lee sarebbe passato come un imitatore; se invece avesse dato una brusca sterzata verso una direzione del tutto nuova avrebbe corso il rischio di alienarsi numerosi clienti, rovinare la narrativa stessa del brand. E forse è per questo che la collezione andata in scena lo scorso sabato sera è stata, sorprendentemente, poco sorprendente.

Scomparso il parakeet green, scomparsi i pattern intrecciati giganti, gli stivali di gomma, le linee futuristiche «and yet a trace of the old self exists in the new self», potremmo dire parafrasando un famoso meme. Ciò che ci ha fatto innamorare di Bottega Veneta in passato (le linee pulite, quel minimalismo così squisitamente editato, la tattilità dei materiali) è ancora rimasto seppur in forma diversa – è cambiata però la visione, tornata alle origini di un brand che ha alla base l’idea di un artigianato totale e di un’estetica if-you-know-you-know. Dopo l'addio di Lee, il brand doveva comunque differenziarsi, raccontare una nuova estetica e non diventare un seguace o un epigono di se stesso. Durante gli anni di Lee, il brand aveva lanciato numerosi trend (stivali di gomma, il verde brillante, i sottili throwback agli anni '70, l'estetica iperlineare e materica che faceva assomigliare certi item a delle caramelle) e replicarla adesso, per Blazy, avrebbe significato svalutare se stesso. Mentre i brand di tutto il mondo ancora imitano Lee, il nuovo direttore creativo doveva comunque guardare avanti, anche se con una certa prudenza.

La necessità da risolvere con questo show, dunque, era quella di rompere e insieme proseguire con il passato – un’operazione senza dubbio delicata, specialmente per un brand come Bottega Veneta che, proprio con Daniel Lee, era salito a un nuovo livello di coolness. Blazy ha fatto la cosa più logica: puntare sulla sottigliezza dei dettagli. Come scrive Vanessa Friedman del The New York Times: «Sembrava tutto tremendamente borghese e beneducato, finché non si guardava di nuovo». Il pezzo più emblematico e più citato è il primo apparso in passerella: un paio di pantaloni in nubuck che creano un’illusione praticamente perfetta di essere dei jeans – e invece è tutta pelle; i cappotti a doppio petto dalla silhouette curvata come un boomerang, le gonne di pelle a forma di tulipano che rivelano una pioggia di frange, le borse intrecciate senza nemmeno un’impuntura. 

Tutti dettagli che forse passano in secondo piano attraverso il medium della sfilata, che proprio sui dettagli ha difficoltà a concentrarsi, ma che dimostrano un’attenzione non comune all’artigianalità – anche se rappresentano una vision molto più classica di quella a cui Lee ci aveva abituati. Negli ultimi anni, Bottega Veneta era diventato un brand molto presente su Instagram e sui social grazie a un’identità visiva immediatamente riconoscibile che ave interpretato con intelligenza i principi base del brand (la texture, l’eleganza commerciale ma priva di loghi, i materiali ultra-lusso) ma tagliando quasi del tutto i ponti con il passato, proponendo nuovi loghi triangolari, nuovi colori, nuovi prodotti non legati al core business del marchio - e cioè le borse. Lo show di sabato ha invece rappresentato l’apertura di un dialogo: tra il passato più classico del brand, l’era del lusso anonimo di Tomas Maier e quella insieme brillante e drammatica di Lee. Se molti esponenti delle nuove generazioni ricordano Bottega Veneta per il linguaggio così marcato di Lee, bisogna infatti anche tenere presente che nei precedenti 17 anni di Tomas Maier e in tutti gli anni precedenti in realtà, il brand era sinonimo di «stealth wealth», di lusso silenzioso e irriconoscibile ai più: lo stesso logo del marchio non esisteva, c'era solo il celebre intrecciato. 

Per decenni, Bottega Veneta è stato più dedicato a chi ne indossava i prodotti che a chi li guardava, è stato più tattile che visuale ma soprattutto riconoscibile solo in base a dei segni che soltanto chi ne era al corrente poteva apprezzare. Una pubblicità del 1957 diceva con orgoglio: «Le persone riconoscono una borsa di Bottega nel minuto in cui la vedono. Per questo mettiamo il nostro nome solo all’interno» e per moltissimi anni lo slogan che seguiva il nome del brand nelle sue molte inserzioni dei giornali era: «Quando le tue iniziali sono abbastanza». Tutti principi che Blazy non ha affatto eluso – ripulendo il palato del pubblico dal forte ricordo dell’estetica di Daniel Lee, raddrizzando le sue silhouette tondeggianti, iniettando un vago vibe Margiel-esco in alcuni dei capi e facendo tabula rosa del passato recente (la mancanza di un qualunque item verde è sembrata proprio una frecciata al vecchio direttore creativo) ma anche togliendo dall’equazione l’instagrammabilità che Lee aveva messo al centro del lato visuale del processo creativo, la radicalità di quell'estetica. Il protagonista è il prodotto, la real thing – è dalla sobria realtà che Blazy vuole ripartire. E questo è solo l’inizio della quieta svolta del brand e chi si è detto poco colpito sabato sera dovrà sicuramente aspettare la prossima collezione. Blazy non disattenderà.