Com’è stata la settimana della Couture a Parigi
Le star della settimana sono state Valentino, Schiapparelli e Jean-Paul Gaultier
31 Gennaio 2022
Si è da poco conclusa la Paris Couture Week, di solito uno dei momenti meno discussi e frequentati del fashion calendar, che invece quest’anno ha riservato molte sorprese. La Couture è ciò che rimane della maniera in cui funzionava la moda prima del prêt à porter, cioè prima della produzione industriale dei capi. Dall'antichità fino agli anni '50, tutti gli abiti sono sempre stati fatti su misura, sia che a cucirli fosse la sarta di corte a Versailles o la povera contadina nella campagna francese. Il che faceva nascere una relazione stretta tra couturier e cliente finale - dialogo interrotto dalla moderna narrativa del designer-star che tutto vuole e tutto può inventata da Marcel Boussac, proprietario originale di Dior che costruì intorno al couturier un'intera mitologia avviando il culto dei designer. Durante gli anni ’80, poi, la Couture passò dall'essere una cosa seria al diventare un terreno di gioco creativo per i marchi non più interessati alla vendibilità, preferendo a essa un’immagine avanguardista e allegramente inconsapevole di sé stessi. Le sfilate Couture di Dior nell'epoca di Galliano, ad esempio, erano un momento centrale della narrazione del marchio ma non avevano pretese commerciali - allo stesso modo, la Couture di Thierry Mugler era piena di narrazioni metaforiche della condizione femminile travestite da campiness. Pare, però, che con l’ultimo giro di sfilate si sia tornati a far funzionare la couture come un gigantesco palcoscenico per la produzione di senso - fatto che fa pensare specialmente in un’epoca tutti sembrano soltanto interessati al profitto immediato.
Un tempo marchio tradizionalista per eccellenza, sulla tradizione del quale viaggiano ancora Giambattista Valli o Elie Saab, Valentino questa stagione ha ribaltato il tavolo da gioco e con una sfilata ambientata nel suo quartier generale di Place Vendôme, cuore dell’ancien régime della moda, ha preso una posizione netta rispetto al dibattito sull’inclusione mettendo in passerella corpi differenti, disomogenei, con storie diverse e costruendo con ognuno di loro, verrebbe da dire per ognuno di loro, un racconto unico. Pierpaolo Piccioli è un uomo intelligente e sa che il suo punto di vista privilegiato, la direzione creativa di una vera maison de couture che vende abiti a centinaia di migliaia di euro, poteva permettergli di fare uno statement estremamente potente e riconfigurare l’identità di un marchio che non è certo immediatamente associabile alla body positivity. Invece se andate a farvi un giro sull’e-commerce del brand vedrete che tutti i capi donna sono acquistabili fino alla taglia 48, moltissimi arrivano alla 50 e alla 52 e questo significa che dalle parti di Valentino si predica bene e si razzola altrettanto bene.
Grande conferma è stato Daniel Roseberry che da Schiaparelli si è inventato una forma di massimalismo concettuale mai vista prima e che unisce la grande propensione al riduzionismo della moda contemporanea con un amore sfrenato per l’eccesso più oltraggioso, quello che fa male agli occhi e che ci siamo disabituati a vedere. Il messaggio di Roseberry è sempre più distillato e la sua sintesi sempre più interessante perché lavora su elementi dimenticati: l’iperdecoratività, l’oro, l’eccesso per l’eccesso e ovviamente i risplendenti anni ’80 in cui il più era il più e l’estetica fuori controllo era la normalità. Schiaparelli, seguendo l’insegnamento della sua fondatrice, sta recuperando il senso dello stupefacente, del meraviglioso nel senso etimologico della parola.
Una grande sorpresa è arrivata invece da Glenn Martens, direttore creativo di Y/Project ma anche di Diesel, al quale è stata affidata l’alta moda di Jean Paul Gaultier che dalla stagione scorsa è fatta in collaborazione con un diverso designer ogni semestre. Martens, che conosce bene il lavoro di Gaultier per averci lavorato, ha cancellato tutta la parte camp e gioiosa e ne ha fatto emergere quella malata, folle, irrispettosa e anche un po’ inquietante. La straordinaria forza narrativa del designer olandese, il suo approccio decostruzionista e intellettuale, non hanno creato incomprensibili giochi modellistici ma hanno scavato nel torbido dell’heritage di Gaultier usando nastri, coralli, strutture metalliche e corsetti strettissimi per ridare una vitalità attuale ad un messaggio probabilmente perso nel tempo. Un tempo in cui Jean Paul Gaultier combatteva contro l’estetica borghese imperante a colpi di seni conici e stampe tatto, un tempo in cui esisteva una parte della moda che, forse senza saperlo, aveva un approccio profondamente politico.