Nigo ha già cambiato Kenzo
Il ritorno di un designer giapponese al brand è stato un ritorno alla forma per la sua estetica
24 Gennaio 2022
Kenzo è un brand storico e molto amato dai fashion insiders, specialmente quello che ancora ricordano gli show organizzati dal founder Kenzo Takada nel corso degli anni ’80. Una legacy che nel tempo era andata persa: dal 1999, Takada aveva ceduto il timone creativo prima a Gilles Rosier e Roy Krejberg, poi ad Antonio Marras fino al 2011, a Humberto Leon and Carol Lim fino al 2018 e a Felipe Oliveira Baptista da 2019 fino allo scorso aprile. Una serie così frenetica di passaggi di mano che aveva in effetti alterato completamente il linguaggio estetico del brand, che si teneva commercialmente a galla grazie a item brandizzati, profumi e accessori, ma della cui identità molti si erano progressivamente dimenticati. Per questo l’annuncio che Nigo sarebbe stato il nuovo direttore creativo del brand era stato accolto con grande aspettativa: Nigo è una forza culturale, designer di culto fondatore di label di culto, alumnus del Bunka Fashion College proprio come Takada, collezionista dei design di quest’ultimo e amico di metà dell’elite del mondo hip-hop. E la sua collezione presentata ieri alla Galerie Vivienne di Parigi, location della primissima boutique di Takada a Parigi, è stata uno dei migliori show della stagione – uno show privo di particolari acrobazie sartoriali, ma che ha fatto una necessaria tabula rasa del passato e spianato la strada del brand verso il futuro.
La parte più interessante della collezione vista ieri è stato il clash di archivio, estetica preppy e rimandi alla tradizione giapponese come ad esempio le giacche haori. La combinazione ha restituito l’effetto di un clean slate giunto dopo i lavori molto artistici ma poco in dialogo con il pubblico di Baptista e soprattutto con l’estetica iper-popolare, sia nel bene che nel male, di Leon e Lim. Ieri pomeriggio hanno sfilato completi, tute, jeans, maglioni, berretti, gonne. Tutti item abbastanza pratici e quotidiani, in certi casi pure classicheggianti ma vivacizzat con la giusta quantità di contaminazione culturale, estro capriccioso di grafiche e dettagli e da uno spirito garbato: dalla vestibilità nonchalant dei completi, fino alla formalità morbida e ma molto meticolosa dei look total denim, passando per le stampe floreali disegnate dai ceramisti giapponesi e quel senso di ordine e senso logico che domina anche i vestiti patchwork, c'è originalità ovunque ma anche un senso di tranquilla discrezione. Dappertutto si avverte l'aroma della nostalgia: come Nigo rilesse l'hip-hop culture per costruire BAPE, ora rilegge il '68 francese e il mondo vintage dell'estetica Americana per costruire il nuovo Kenzo.
La silhouette ampia del completo e quella dell'uniforme mod rianimata dal color blocking, si mescola alla sagoma spiovente delle giacche haori - sempre l'haori, convertito in blazer, aggiunge un tocco di estro al classico completo. Il logo diventa un timido fiorellino, dislocato sui bottoni, sull'orlo delle giacche - infinitamente più discreto ma anche più prezioso, meno urlato. È il ritorno alla forma di un brand che non aveva bisogno di molto cambiamento, ma solo dell’unico cambiamento necessario: un direttore creativo-star che riuscisse a ritrovare il centro della sua estetica e indossarne con agio e credibilità il lascito culturale, portando una visione concreta e radicata nella realtà. Dopo tutto, il fascino stesso di Kenzo sta nella sua visione di multiculturalismo che, per un verso o per l'altro, deve fare parte dei connotati del brand non sotto forma di facile esotismo ma di incontro tra culture diverse da cui si produce la scintilla dell'innovazione, dell'originalità.
Il più grande achievement di Nigo come creative director di Kenzo è stato in parte ma sarà in futuro quello di cancellare gli ultimi vent’anni del brand non tanto per seppellirli quanto più per riportare alla luce ciò che c’era prima. Non è un mistero che il famoso maglione con la tigre di Kenzo presentato durante lo show FW12 del brand abbia aiutato il brand a restare in vita negli anni della streetwear-mania. Una benedizione commerciale per cui venne pagato un prezzo faustiano: per una gigantesca parte del pubblico che non aveva mai conosciuto le creazioni di Takada, l’intero brand si riduceva a una sweatshirt logata che, una volta esaurito il fattore novità, rimaneva comunque estranea sia al discorso streetwear che a quello del lusso. Un heritage che aveva avuto svolta con Baptista, designer onesto e talentuoso ma che poteva essere realmente resuscitato da un successore di Takada che garantisse una continuità più solida con il passato e, in definitiva, una concreta credibilità e autenticità che le felpe logate con la tigre avevano sepolto quanto anno fa.