L’industria della moda sembra sempre di più la Silicon Valley
La policy dell’acquisizione selvaggia dei mega-gruppi del lusso è sempre più simile a quella di Google e Meta
21 Gennaio 2022
Lo scorso 18 gennaio è stata comunicata l’acquisizione di una quota di minoranza di Aime Leon Dore da parte del gruppo LVMH, fiore all’occhiello di un round di investimenti e acquisizioni iniziato nel 2019 con Gabriela Hearst e che oggi conta il beauty brand Versed, lo streetwear brand Madhappy e, tra gli altri, anche la start-up inglese Heat che si occupa di mistery box mentre le diverse società e i fondi legati a LVMH hanno acquisito nel tempo Tiffany & Co. ma anche quote in Etro, Off-White e nel nuovo brand di Phoebe Philo ma ha anche aumentato le proprie quote in Emilio Pucci e Tod’s. La shopping spree di LVMH è stata forse la serie di acquisizioni ed espansioni più eclatante del 2021 - anno che ha visto importanti manovre come l’acquisizione di Stone Island da parte di Moncler, quella di Jil Sander da parte del gruppo OTB e quella di Supreme da parte di VF Group mentre altri brand come Prada, Zegna e Chanel hanno centralizzato il controllo della supply chain acquisendo i propri supplier. Al di là dei vari significati di queste acquisizioni, si nota un pattern prevalente da parte dei conglomerati del lusso che consiste nell’espandersi inglobando realtà più piccole e indipendenti e lasciando sempre meno competitor sul campo – un pattern che sembrerebbe mimare quello delle aziende di Silicon Valley che, come riporta il Financial Times, «hanno collezionato rivali più piccoli a un ritmo record quest'anno in una serie di frenetiche acquisizioni […]. I dati […] mostrano che le aziende tecnologiche hanno speso almeno 264 miliardi di dollari per acquistare potenziali rivali […] dall'inizio del 2021».
Un modello, quello di aziende come Meta o Google, che effettivamente ha funzionato sul piano finanziario negli anni ma che è stato spesso messo in dubbio per lo strapotere che quelle stesse aziende avevano iniziato a detenere – specialmente per quanto riguarda l’utilizzo dei dati degli utenti. Nella moda le cose sono diverse, non di meno, però, un mercato in cui i brand indipendenti sono costretti a fronteggiare i colossi del luxury è necessariamente un mercato poco equilibrato – tanto più che proprio questa competizione mette i brand indipendenti nella condizione di farsi acquisire. Proprio come nel mondo tech molti founder di app o servizi mirano a espandere il proprio business solo per poterlo poi vendere (seguendo il famoso esempio di Tom Anderson che, dopo aver co-creato MySpace, vendette tutto nel 2005 e andò via con 580 milioni di dollari in tasca), esiste il rischio che i nuovi designer indipendenti del mondo della moda o dello streetwear inizino a fondare nuovi brand o modelli di retail con l’obiettivo finale di associarsi con un grande gruppo del lusso, ottenendo un’importante validazione commerciale ma anche piattaforme logistiche e produttive di scala globale.
Nel mondo della moda, comunque, vendere la propria compagnia mantenendone il controllo creativo non è affatto una novità: nel ‘93, Maurizio Gucci vendette l’azienda di famiglia a Investcorp per 170 milioni di dollari dopo averla quasi fatta fallire e uscendone definitivamente; nel ‘98 Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti vendettero il brand per 300 milioni di dollari a un conglomerato della famiglia Agnelli anche se il designer rimase alla guida creativa del brand fino al 2007; più di recente la famiglia Versace ha venduto l’eponimo brand a Capri Holdings per 1,8 miliardi di euro investendo a sua volta 150 milioni di euro nelle azioni del conglomerato e lasciando sempre Donatella Versace nel ruolo di Chief Creative Officer e Carlo Rivetti ha venduto Stone Island a Moncler per 1,15 miliardi di euro lasciando a Carlo Rivetti il ruolo di presidente e direttore creativo. In questi e altri casi la vendita ha riguardato o un cashout dei proprietari che hanno abbandonato la metaforica nave o una questione di crescita: Rivetti ha definito l’acquisizione da parte di Moncler come un modo per «per affrontare uniti, e più forti, le sfide che ci aspettano» mentre Donatella Versace ha deciso di vendere l’azienda «per farle raggiungere il suo pieno potenziale».
Prorpio come Versace e Stone Island, anche Aimè Leon Dore ha mantenuto la sua indipendenza creativa e userà la piattaforma di LVMH per espandere la sua presenza retail – non di meno è inutile nascondere che l’industria del lusso, fatte poche eccezioni, è praticamente un oligopolio dominato da grandi corporazioni e che la cosa non sfugge ai consumatori, specialmente alle community di cult brand come Aimè Leon Dore, portandoli a preoccuparsi di come la nuova catena di comando influenzerà l’autenticità del brand. Questo è un punto molto importante in quanto negli ultimi anni i brand hanno avuto «l’opportunità di andare oltre la gestione di club e lezioni di yoga e diventare "brand-nations" globali, riempiendo il vuoto di valori, di significato e di appartenenza che è stato lasciato dalla politica e dalla religione reclutando milioni di seguaci», come scriveva anni fa Doug Stephens su Business of Fashion.
Questo significa che il successo di un brand è determinato dalla sua bravura nel community building e dipende in certa misura proprio dal mantenimento di quella community. Discorso che porta in gioco la realness della moda – ossia la capacità di un brand di trasmettere ai propri follower un senso di autenticità e integrità prima di tutto estetica e creativa e poi valoriale. Acquisendo brand indipendenti di successo, i grandi gruppi del lusso mirano proprio ad acquisire il loro cool factor e le loro community – ma sta proprio a loro mantenere quel cool factor arricchendo l’universo del brand senza schiacciarlo sotto il peso delle pratiche corporate e delle direttive aziendali.