Virgil Abloh torna a casa con lo show FW22 di Louis Vuitton
Uno show finale che è un inno alla forza dell’immaginazione
20 Gennaio 2022
«Una delle parole più usate da Abloh, “immaginazione” era ciò che alimentava i suoi sogni. È ciò che lo ha portato da Louis Vuitton e ciò che definisce il suo lascito alla maison. Eseguito in otto parti, dal 2018 al 2022, il lavoro del direttore creativo non si è mai accontentato di immaginare soltanto abiti e accessori. Lui voleva fare evolvere i valori umani di cui carichiamo il linguaggio del vestire e sperimentare come questi significanti sociali, politici e culturali possono usare per implementare un cambiamento al di là del mondo della moda», così spiegano le show notes che descrivono lo show FW22 di Louis Vuitton, l’ultimo disegnato da Virgil Abloh e, forse, anche il più grandioso nell’impianto e nel concetto. Sempre le notes descrivono quello di Abloh come un arco narrativo, evolutosi attraverso otto collezioni e culminato con lo show svoltosi poco fa al Palais Royal di Parigi.
Lo show ha incorporato tutti i temi visivi principali del lavoro di Abloh: l’iconografia delle nuvole e degli aquiloni, il sogno giovanile descritto a metà tra utopia e memoria autobiografica, la purezza dello sguardo infantile ma anche «la trascurata e universale influenza della cultura hip-hop di cui si è nutrito». Si è parlato nel titolo di un “ritorno a casa”, sia perché la vicenda di Virgil viene paragonata nelle notes al classico viaggio dell’eroe, la struttura-base di ogni mito umano che si conclude sempre con un ritorno a casa; sia perché il set viene definito una Dreamhouse, una casa dei sogni, malinconicamente paradisiaca perché tinta dei colori del cielo e delle nuvole, dove i performer fluttuavano intorno alle scale e i comignoli, e l’orchestra suonava seduta a lungo tavolo – ma anche l’ennesimo rimando al Mago di Oz che inizia proprio con una casa che, volando nel vento, si schianta a terra tutta intera. L’addio a Virgil diventa dunque, e in maniera molto brillante, un compendio di tutto il suo lavoro.
Per quanto riguarda i vestiti, questa collezione è stata forse una delle più tecnicamente sofisticate del Louis Vuitton di Virgil, creata con alla base quell'onnivoro di sincretismo culturale che mescola la cucitura boro giapponese, i quadri di De Chirico e Courbet, il tie-dye che diventa un monogramma a rilievo, il surrealismo di Magritte, l’ispirazione tratta dall’arredamento parigino con la trasformazione dei pizzi in decorazioni e ali meccaniche. La riscrittura dei preconcetti alla base del vestire, degli archetipi fissi simboleggiati ad esempio dai completi maschili, passa anche dal discorso della moda genderless, con lunghe gonne e caftani che entrano a far parte dell'uniforme maschile, sia quella smart che quella casual.
Una delle parti migliori della collezione sono state le borse: proprio perché borse e zaini sono il prodotto più iconico di Louis Vuitton, il lavoro di sovversione delle aspettative e dei pregiudizi di Abloh ha stravolto la stampa Damier facendola diventare un’illusione ottica, la pelle dei borsoni diventa ora pelliccia shearling, ora mosaico di cuoio e PVC, le borse di coccodrillo sono tinte in tie-dye e ricoperte da una gommatura mentre, al contrario, le borse da Triathlon e le protezioni usate nelle arti marziali si trasformano in accessori di lusso. Un tipo di visione, infusa di elementi autobiografici e ragionamenti culturali, che le note descrivono così:
«Per Virgil Abloh, i limiti sono una cosa creata dall’uomo. Si immagina l’aspetto del Paradiso in Terra, interpreta i fiori come simbolo della diversità umana e trova la civiltà nel romanticismo di Parigi. Ha una passione per il surrealismo ma il suo lavoro non si risolve mai in un passivo escapismo. Tutto il suo ethos si basa sul desiderio di confrontarsi con i problemi del mondo – e si accosta a quel desiderio con fervente pragmatismo. Quando la razionalità non fa del mondo un posto migliore, lui si chiede se il suo opposto ci riesce».