Perché produrre localmente potrebbe risolvere i problemi della supply chain
Una risposta semplice a un problema apparentemente insolubile
30 Dicembre 2021
Oggi, Hugo Boss ha annunciato che espanderà la presenza dei suoi lavoratori e delle sue fabbriche in Europa, nello specifico in Turchia, per rendere più corta la supply chain e non dover dipendere dalle fabbriche del sud-est asiatico. Il brand aumenterà di un terzo lo staff della sua smart factory di Izmir e investirà anche in tool e macchine industriali per evitare, come scrive il Financial Times, «carenze di magazzino, ritardi e costi di spedizione più alti». Il CEO del brand, Daniel Greider, ha spiegato: «La nostra strategia per il futuro sarà di produrre sempre più capi vicino ai mercati dove saranno venduti». Una scelta che, sempre secondo Grieder, ha già portato enormi vantaggi competitivi all’azienda e che, letta in un senso più ampio, costituisce una soluzione di grande semplicità ai problemi della supply chain che piagato l’industria della moda dall’inizio della pandemia. Qualche mese fa, ad esempio, Nike ha dovuto annullare molti ordini dei suoi clienti per ritardi nella supply chain, mentre WWD ha stimato che gli stessi problemi siano costati a GAP 152 milioni di dollari solo quest’anno. Tutti problemi che derivano solo dalla lunghezza di queste supply chain, che a partire dalle materie prime passano dall’Asia e poi arrivano in Occidente – con notevole dispendio economico ma anche consumo di carburanti fossili per il trasporto.
L’idea di Hugo Boss di accorciare la supply chain sembra a tutta prima controintuitiva, in quanto sul piano economico i costi di produzione nelle fabbriche asiatiche sono molto minori rispetto a quelli dell’Europa – non di meno la pandemia di Covid ha evidenziato che il complicato meccanismo delle dogane, delle spedizioni e della sincronizzazione di ordini e produzioni è sì funzionale ma anche fragilissimo. Un tipo di criticità che può essere aggirato con una soluzione apparentemente banale come accorciare la supply chain stessa, riducendo la possibilità stessa di ritardi ma anche, sul piano della comunicazione, rassicurare i consumatori che, come è noto, sono tendenzialmente disposti a investire maggiori risorse in beni prodotti più o meno localmente o comunque in Europa che in item provenienti da fabbriche sparse in giro per il mondo.
Il vantaggio di una supply chain più corta risiede anche nella sostenibilità. In un articolo pubblicato su BoF, si evidenzia come la comunicazione intorno all’idea di una lean supply chain riguardi più la riduzione dei costi che quella della lunghezza della filiera in termini fisici, specialmente in un mondo post-Covid in cui «i costi di spedizione sono aumentati a causa della scarsa capacità, i prezzi dei materiali e i salari sono in aumento in Asia, così come i costi di conformità e trasparenza». Secondo l’articolo è la filosofia alla base della logistica dei materiali e delle spedizioni che deve cambiare, specialmente considerato come la supply chain costituisca il 96% del footprint della moda sull’ambiente – con una mancanza di investimenti in termini di sostenibilità da parte dei suppliers dovuta a un aumento di costi e a una mancanza di incentivi. Una catena di produzione più corta potrebbe sicuramente ridurre questa problematica. Ma come spiega l’articolo:
«Esistono capabilities da parte dei fornitori per sostituire le pratiche basate sui costi per pratiche snelle inflessibili e prezzi più bassi. La vera essenza della partnership è l'impegno paritario per creare un'industria più produttiva, redditizia e sostenibile. La chiave di questi imperativi per ridurre il rischio di un'attività inutilmente ad alto rischio risiede a monte nella produzione globale, indipendentemente dalla geografia. L'alto costo della moda low cost non è più conveniente o sostenibile – e troppo costoso per continuare».