Cosa significa davvero studiare moda?
Abbiamo parlato con i diretti interessati per dimostrare che non si tratta affatto di «abbinare i vestiti»
31 Dicembre 2021
«After all, we do it for the culture». Attraverso lo screen-shot di questo messaggio Gabriella Karefa-Johnson, stylist e fashion director newyorkese, saluta per sempre Virgil Abloh. Ridefinire il ruolo dell’addetto al settore contemporaneo nel mondo del lusso, introducendo un nuovo metodo di lavoro, autentico, democratico e visionario, è sempre stato il focus per Virgil. Abloh, con il suo approccio poliedrico, è stato l’esempio perfetto di quello che in troppi, al di fuori del fashion industry, ancora non conoscono. A proposito, è risaputo che un percorso accademico nella moda sia sottovalutato e spesso screditato. «Quando qualcuno scopre che studio fashion design, il suo interesse cala all’improvviso, a tal punto che smettono di ascoltare quello che dico», ci ha raccontato Nichole, studentessa dell’Istituto Marangoni di Milano. Nella migliore delle ipotesi, come nel caso degli interlocutori di Mariacristina, studentessa in IUAV, e Jessica, laureanda presso Accademia di Costume e Moda, lanciano un «wow, figo» subito seguito da un sentito «ma quindi cosa fai esattamente?» senza preoccuparsi troppo di prendere il percorso anche solo lontanamente sul serio.
Chi ha frequentato una scuola di moda ha imparato nel tempo a «leggere quegli impercettibili cambi di espressione che celano dubbi e scetticismo» mentre il primo pensiero va sempre alla dedizione, «l’infinita dedizione necessaria per affrontare questo percorso al meglio», come afferma Carlotta, al terzo anno del corso di Shoes and Accessories Design in IED Milano, ma non va trascurato l’impatto emotivo di una convinzione comune che, secondo Virginia del corso di laurea triennale in Cultura e pratiche della moda di Rimini, porta spesso a far dubitare della propria scelta, inculcando il dubbio che questo percorso richieda poco impegno e abbia poco valore. Il messaggio più consapevole, autocritico e positivo, arriva da Paolo, giovane talento del corso di styling presso il Polimoda di Firenze:
«Portandomi alle spalle una laurea in economia e vivendo solo da un anno il mondo della moda, conosco ahimè i commenti di massa. In molti si chiedono come mai abbia lasciato un percorso così solido per un ambiente così incerto, ma chi ha esperienza di quest’industria sa quanto lavoro, dedizione e devozione richiede. Credo che l’informazione sia l’unica arma nei confronti di un’ignoranza spesso genuina. Sono fiero di poter far parte di una delle realtà più inclusive e all’avanguardia che ci sia. Forse, se tutto quello che avviene nella moda non restasse nella moda e basta, ci sarebbero sicuramente meno commenti e più apprezzamenti».
Durante il primo lockdown, 1 Granary ha realizzato un documentario in collaborazione con la Parsons School di New York per approfittare del momento di stop e convincere il mondo che uno studente di fashion design, styling o visual merchandising si occupa praticamente di tutto, mentre i vestiti costituiscono appena il 20% del lavoro. A distanza di un anno, il messaggio è ancora in viaggio: perfino le matricole non immaginano che saper disegnare, cucire e «abbinare i vestiti» costituisce solo una piccola parte di un procedimento molto più ampio. Al contrario, come ci ha raccontato Maxence Dinant, professore di 1st e 4th year del corso di Fashion Design al Polimoda, il principale lavoro di un insegnante di moda è incentivare i ragazzi a essere curiosi, ampliando il più possibile il loro repertorio con l’obiettivo di assimilare il «processo creativo», ovvero il metodo di studio finalizzato a trasformarsi in lifestyle e che accomuna le discipline artistiche, dalla moda alla recitazione e dalla fotografia alla pittura.
Pensando all’obiettivo finale, Dinant ha spiegato che «la creatività non è un’idea, ma piuttosto un’associazione di idee» da nutrire continuamente per tradurre una semplice ispirazione in una soluzione completa e per sviluppare, di volta in volta, una sorta di «database culturale» dal quale gli alunni imparano ad attingere spontaneamente e in modo trasversale. Inseguendo la linea del «database culturale», una scuola di moda favorisce lo sviluppo di un ecosistema di scambio reciproco: «è il bello del nostro mestiere» ha continuato Maxence «quando uno studente mi presenta qualcosa che mi evoca un’altra cosa e un’altra ancora, è così che posso indicargli la strada per continuare». Per realizzare i progetti d’esame, che non solo distinguono la moda dal sistema accademico classico ma preparano i ragazzi al lavoro vero e proprio, il metodo alla base del processo creativo risiede nella ricerca. Perché se da una parte un’idea arriva quando meno te lo aspetti gli studenti sanno che «solo la ricerca può renderla geniale». È un’ossessione, «un'immersione totale per arricchire e dare valore al proprio progetto. Personalmente lavoro per deduzione», come afferma Pietro – studente all’attivo in IED Milano che ha già creato un suo marchio, Mandown MMXXI, ricollegandosi al discorso di Maxence Dinant.
Studiando moda, ogni studente sviluppa un proprio rituale, unendo imput, contesto culturale e background personale. Come testimonia l’esperienza di Chiara, studentessa di Trend Forecasting del Polimoda, che viene «da una famiglia in cui le donne sono una parte preponderante in diversi modi, numericamente ma non solo» e che non si è mai separata da quest’influenza, nella sua interpretazione del quotidiano così come nella sua visione estetica ispirata all’arte e alla fotografia, continuando a cercare «di dar forma a quelle stesse sensazioni, di raggiungere la stessa self-confidence» che le donne della sua vita le hanno trasmesso. Una situazione che riguarda anche Anna, che si è appena laureata in Cultura e pratiche della moda a Rimini:
«La mia influenza principale forse parte dall’infanzia, un mix tra l’essere cresciuta in una famiglia artistica e freak: mio padre legato ai vinili e alla musica anni ’70 e mia madre giornalista di moda. [...] La mia passione per la moda parte da una mia esperienza innata di osservazione dell’altro: non è legata all’apparenza, ma alla ricerca dei perché. Perché ha quelle scarpe? Cosa vuole comunicare? Essere cresciuta senza tanta disponibilità economica mi ha aiutata a maturare fantasia e creatività: sono tutt’ora convinta che si possa comunicare la moda anche attraverso le piccole cose quotidiane e questo smonta anche il grande stereotipo di moda=lusso».
Come ci ha detto Maxence Dinant, se un professore non fa che ripetere di uscire, osservare, leggere e andare alle mostre, è perché la cultura per un futuro addetto al settore risulta sempre fondamentale: la conferma arriva dalla personale definizione di Manuel, giovane fashion designer made in NABA, che si nutre di riferimenti ellenistici e che arriva a considerare la sua città, Milano, come «un museo a cielo aperto» così come dalla passione per l’arte di Jessica, che trova la «chiave di lettura» per le sue collezioni di Alta Moda nella storia dell’arte e nella fotografia di Richard Serra e Georgia O’Keeffe. Per dimostrare che studiare moda non significa unicamente cucire e disegnare – vi garantiamo che in molti non saprebbero da dove cominciare, è bastato continuare a parlare con Mariacristina, la giovane promessa IUAV menzionata in apertura, di graphic design, di Steven Meisel e deep house, ma anche dei fumetti anni ’60, dei film di Bergman e dei racconti di Dino Buzzati.
Il bello di questo percorso, è che non è mai lo stesso di qualcun altro. Mentre nella visione creativa di Pietro confluiscono cultura hip-hop e avanguardie del primo Novecento, in quella di Giovanni – studente IUAV, ballerine come Anita Berber e Valeska Gert incontrano dive hollywoodiane del calibro di Grace Jones sulle note soft-garage di Burial, Paolo si descrive «costantemente affascinato da mix di high and low, di kitsch e citazione [...] ossessionato da tutto ciò che è camp, kitsch, trash, a partire dal mondo dell’arte per finire alla televisione commerciale», specificando che chi disdegna la cultura di massa non è superiore, ma si limita a contrapporre stereotipo a stereotipo.
In una scuola di moda non c’è posto solo per le menti più creative, ma anche per chi sogna un futuro più orientato verso il retail e il merchandising. Dalla testimonianza di Edoardo, che ha seguito il Master in Management del Made in Italy in IULM Milano, si evince un occhio di riguardo nei confronti del mercato: «il mio percorso è improntato sul visual merchandising nell’ambito della gioielleria, un campo dove conoscere le correnti artistiche, architettoniche e culturali che caratterizzano il background di un posto è il requisito primario». Anche Rosalexia, studentessa del corso di Fashion & Luxury Brand Management in Istituto Marangoni, ci ha raccontato di essere sempre stata appassionata di arte, design, storia, cinema, sociologia e architettura, e di aver imparato, studiando moda, a creare collegamenti tra le sue passioni culturali e i comportamenti dei consumatori:
«Questo mondo mi ha permesso di approfondire molte delle materie per cui nutro interesse e che poi sono diventate fondamentali per capire il concetto stesso di moda. L’architettura e il design sono sicuramente due degli ambiti culturali che più mi interessano e affascinano: la struttura dei retail, il modo in cui essi vengono pensati dai grandi architetti. Ma non solo, ho constatato l’importanza della storia, dell’arte, della musica e del cinema, da sempre specchi sociali (che riguardano anche la moda), della sociologia che mi permette di indagare i consumatori e quello che preferiscono acquistare».
Noi di nss magazine abbiamo pensato che non potesse esserci modo migliore, per dimostrare l’importanza delle scuole di moda, di dar voce a chi sta vivendo l’esperienza in prima persona – anche se il più delle volte, compresa questa occasione, i ragazzi e le ragazze si dimenticano anche di mangiare e a poche settimane dagli esami hanno «delle occhiaie veramente poco glamour», come ci ricordano le future fashion designer Nichole e Mariacristina. Anche se dall’esterno può sembrare facile, studiare moda è una vera e propria vocazione, che può trasformarsi in una bellissima ossessione. In molti, alunni e insegnanti, hanno parlato di un lifestyle dove essere open-minded, intraprendenti e determinati è la base, e dove la spiccata curiosità rappresenta l’attitudine fondamentale. Come ha detto una volta una prof a Chiara, «non salviamo vite». Ma speriamo di avervi dimostrato che facciamo molte più cose di quelle che possiate immaginare.