Il deserto di Atacama in Cile sta diventato un’enorme discarica di abiti usati fast fashion
Una montagna che cresce di 39.000 tonnellate l’anno
17 Novembre 2021
Negli ultimi anni quello della sostenibilità è stato il principale problema che l’industria della moda ha dovuto affrontare. In effetti, come afferma un report delle Nazioni Unite, l’industria della moda è la seconda più inquinante del pianeta e negli ultimi anni ha provato a intraprendere una difficile transizione ecologica che ha visto, a fianco di buoni risultati, anche numerosi casi di greenwashing – l’ultimo dei quali ha coinvolto il brand Coach. Il problema della sovrapproduzione, comunque, rimane causando abnormi accumuli di abiti-spazzatura in tutto il mondo, il più famoso dei quali è il Great Pacific Garbage Patch, un’isola di spazzatura grande quanto la Francia che galleggia nell’Oceano Pacifico. Ma di recente Al Jazeera ha rivelato che un’altra area naturale sta diventando un’enorme discarica a cielo aperto per gli abiti usati di mezzo mondo: è il Deserto di Atacama, un territorio che si estende per 1600 chilometri a est delle Ande, in Cile. Secondo Al Jazeera, ogni anno altre 39.000 tonnellate di abiti prodotti principalmente in Cina e in Bangladesh finiscono per accumularsi sulle dune del deserto – sono tutti abiti fast fashion, non riciclabili perché non composti di materiali biodegradabili o tinti con sostanze chimiche tossiche per l’ambiente. Il percorso seguito che questi abiti, per lo più prodotti del fast fashion, li porta in giro per il mondo, dai paesi di fabbricazione, passando per Europa, America ed Estremo Oriente fino al sud del mondo, in Africa o in Sud America, dove alcuni di questi abiti vengono venduti mentre altri, che non possono essere venduti né riciclati né smaltiti nelle discariche governative, vengono semplicemente gettati nel mezzo del deserto.
Ogni anno, circa 59.000 tonnellate di abiti usati arrivano al porto di Alto Hospicio, nella provincia di Iquique, nel nord del paese, impacchettati in enormi balle. I grossisti di abiti usati viaggiano 1800 chilometri per acquistarle e poi rivenderle in tutto il Sud America – ma una grandissima parte di questi abiti sono invendibili e nessuno ha motivo di pagare le tariffe portuali per il suo spostamento o smaltimento. Il problema che si è sviluppato in Cile, in realtà, si ripresenta sempre uguale in moltissimi altri paesi del Sud del mondo, specialmente in Africa dove, secondo un rapporto di US News, sei paesi si classificano come i maggiori importatori mondiali di questo tipo di abiti. In cima alla classifica dei maggiori importatori di abiti usati, però, ci sono i paesi asiatici: il Pakistan in testa, con oltre 780.000 tonnellate di abiti usati importati nel paese dal 2018 a oggi, seguito a distanza dall’India e dalla Malesia. I maggiori esportatori di questi abiti, invece, sono gli Stati Uniti, la Germania e il Regno Unito. Secondo le stime, l’Italia è il decimo maggiore esportatore di abiti-spazzatura al mondo, con oltre 160.000 tonnellate di abiti usati usciti dal nostro paese dal 2018 a oggi.
Oltre a essere stata resa nota al mondo pochi giorni fa, tramite il reportage di Al Jazeera, la questione del deserto di Atacama ha già suscitato le preoccupazioni degli attivisti cileni. Nel paese sono già nate aziende che si occupano di rifunzionalizzare questi abiti trasformandoli in materiali per l’isolamento termico degli edifici, come fa EcoFibra, o utilizzando tecniche industriali water-free e chemical-free per ottenere nuovi filati, come fa invece Ecocitex. Il problema del destino degli abiti che in Occidente vengono gettati via e spediti nel Sud del Mondo era già stato menzionato a nss magazine nel settembre 2020 da Marina Spadafora, autrice, attivista e country coordinator per Fashion Revolution, che aveva raccontato: «Ad Accra, in Ghana, c’è un mercato enorme in cui i mercanti comprano queste balle a scatola chiusa. Le aprono e metà di quegli abiti è danneggiata o sporca e loro la buttano. Le discariche e i fiumi di Accra sono del tutto intasati dai nostri abiti buttati via. Dobbiamo produrre di meno: produrre meno e meglio e che la gente lo faccia durare. È l’unico modo per andare avanti».