La storia dietro la nomina di Matthieu Blazy (e dell'uscita di Daniel Lee) da Bottega Veneta
Il cambio di direttore creativo del brand può diventare l’opportunità di creare una moda più trasparente
17 Novembre 2021
«A quanto pare Matthieu se n’era addirittura andato due settimane prima, credo ci fosse stato uno scontro di qualche tipo» hanno riferito ieri a nss magazine degli insider dell’industria vicini a @hftgroup parlando delle tensioni sviluppatesi durante l’ultimo show a Detroit di Bottega Veneta. Secondo la versione dei fatti riferita da queste fonti ma non confermata da portavoce del brand infatti, «è stato Daniel [a creare la collezione da solo, ndr] per questo è stata ricevuta con freddezza. Era supportato in tutto da Matthieu che, a quanto pare, è il vero responsabile di alcuni dei prodotti di maggior successo che hanno rinvigorito l'immagine del brand». Queste voci sulle presunte dinamiche interne al team di Bottega Veneta nelle tesissime settimane precedenti al licenziamento di Daniel Lee sono state anche supportate da un commento di Virginie Mouzat, ex-editor di Vanity Fair in Francia, che nel complimentarsi con Blazy per la sua nomina a nuovo creative director del brand ha sottolineato, in modo abbastanza eloquente come, «un atteggiamento equilibrato, la buona educazione e il rispetto verso i colleghi» ripaghino sempre – riferendosi in maniera abbastanza palese a Daniel Lee, che nel frattempo si è trincerato in un completo silenzio stampa.
La rivelazione che Blazy fosse stato il vero artefice del successo di Bottega Veneta è sicuramente uno statement forte che andrebbe letto con le dovute cautele del caso. Ma in ogni caso dimostra che spesso, dietro il divismo dei direttori creativi si nascondano molte altre eminenze grigie, gli Head Designer ad esempio, che sono i veri artefici o almeno i co-responsabili del successo di un marchio o di un prodotto. L’intera vicenda, dunque, ha gettato un’ombra sul mito del direttore creativo/autore, un retaggio culturale che risale all’epoca in cui i designer si chiamavano “stilisti” e i founder dei grandi brand erano direttori creativi e del design senza soluzione di continuità, oltre che couturier a tempo pieno, evidenziando la necessità di abbandonare il culto della personalità tributato a queste figure in favore di un approccio più aperto e onesto nei confronti del pubblico e dei molti professionisti interni all'industria.
Esempio positivo di questo atteggiamento è Kim Jones che, durante la sua tenure da Dior, ha “condiviso” parte della propria autorialità di direttore creativo con Thibaut Denis, Head of Footwear del brand, e con Yoon Ahn, che è la Head of Jewelry Design, o con il modista Stephen Jones. Ma anche Alessandro Michele che nella collezione Epilogue di Gucci ha trasformato l’intero team di design in modelli del lookbook affiancando a ciaascun outfit una targhetta che ne esponeva il nome e il ruolo – dando un volto a quelle centinaia di professionisti che contribuiscono, spesso senza alcun credito, alla riuscita di una collezione. Certo, nel caso di Kim Jones estendere il ruolo di co-direttore creativo anche a Travis Scott in un malcelato celebrity stunt ha avuto un ritorno di fiamma non da poco dopo la tragedia di Astroworld – non di meno il suo approccio iper-collaborativo è stato accolto come l’inizio di un cambio di paradigma all’interno del sistema. È una questione di cultura: persino un designer old school come Hedi Slimane, che ha letteralmente accentrato a sé l’intera brand identity di Celine e firma ogni foto e campagna che proviene dal brand, ha iniziato a collaborare con stuoli di artisti dandogli uno spazio prominente nell’ultima collezione SS22 – che includono ad esempio Scott Daniel Ellison che ha ricamato di perline una giacca smanicata, Mary Herbert che ha creato i disegni borchiati di una Harrington Jacket o Amy Dorian, responsabile del motivo che decora un cardigan di mohair.
Pensare che l’intera collezione di un brand derivi da un singolo creativo-demiurgo è in realtà una distorsione percettiva dovuta alla necessità di avere “nomi che fanno vendere il biglietto” creativamente parlando – come si diceva prima un retaggio dell’epoca di Valentino, Armani, Saint Laurent o Lagerfeld. Venuti meno i founder-stilisti, è sorta l’esigenza di legittimare la validità del design attribuendola a un certo designer e non a un anonimo team creativo. La contraddizione però è che i vecchi designer lavoravano e producevano su una scala molto più gestibile di oggi, epoca in cui i brand sono diventati immense industrie trans-nazionali comportando una necessaria crescita e iper-razionalizzazione dei diversi team di design impegnati ciascuno in specifiche categorie. Per tornare a Bottega Veneta, ad esempio, la Head Designer del Footwear è Nina Christen, forse la vera responsabile del Puddle Boot. Eppure, dopo anni passati ad ascoltare questa narrativa, anni in cui tra l’altro il peso culturale della moda si è alzato tantissimo, il pubblico più esperto si fa poche illusioni – ed è per questo che converrebbe forse iniziare a dare il giusto credito ai designer e agli autori che con le proprie creazioni continuano a propagare il mito di un certo brand. In un messaggio rimasto anonimo condiviso dallo scrittore Andrea Batilla a proposito della vicenda di Bottega Veneta si legge:
«Dagli stagisti, allo sviluppo prodotto, i modellisti, i prototipisti, le persone coinvolte nei fitting, i fornitori […]. Idee che cambiano come bandiere al vento, budget da far comunque rientrare, prove su prove […] Anche per noi “gente normale” vedere un pezzetto del nostro lavoro su una copertina, uno schermo o addosso a qualche celebrity a volte ripaga più del salario».