Mentre tutti parlano di sostenibilità, Chloé è il primo brand di lusso a diventare B Corp
Il luxury fashion e il complicato rapporto tra sostenibilità effettiva e sostenibilità percepita
20 Ottobre 2021
Chloé, il brand diretto da Gabriela Hearst, è diventato ufficialmente una B Corp, un titolo rilasciato dall'ente B Corporation® che certifica la performance ambientale e sociale di un’azienda. La certificazione si basa su risultati economici e l’adesione a standard molto severi e specifici oltre che a una policy di trasparenza assoluta sulla propria supply chain e su tutti i gradini della propria gerarchia. Per questo è particolarmente difficile da ottenere, tanto nel caso del fashion luxury e Chloé è il primo luxury brand a diventare B Corp, sottolineando il gap fra sostenibilità dichiarata ed effettiva nell'industria. Nel campo del fashion solo brand outdoor dichiaratamente schierati sul tema sostenibilità come Patagonia e Burton hanno ottenuto la certificazione, che negli ultimi anni è diventata il gold standard mondiale.
Nell'industria del lusso l'ambiguità tra sostenibilità percepita ed effettiva è un tema molto rilevante oggi che sta diventando uno dei criteri discriminanti per la scelta dei consumatori. La certificazione B-Corp rappresenta in effetti più di un semplice badge che testimonia la sostenibilità di un brand: è anzi la sua verifica oggettiva, scientifica e più stringente, che va rinnovata periodicamente, e che soprattutto cancella alla radice il problema del greenwashing.
Il rapporto controverso tra il lusso e la sostenibilità è testimoniata dai rating di associazioni come Fashion Revolution, che nel suo Transparency Index 2021 ha mostrato come moltissimi dei grandi brand di moda siano poco limpidi sulle proprie policy; ma dall’altro è aggravata dalla stessa fallibilità dei sistemi di rating più accreditati. Il database Good on You, è normalmente considerato molto attendibile eppure il suo attuale rating su Chloé appare ancora mediocre – un dato di cui la stessa certificazione B Corp dimostra la falsità. Si può certamente trattare di un ritardo nell’aggiornamento del profilo di Chloé, che però rende evidente di come sia effettivamente difficile per il consumatore finale determinare con assoluta certezza l’operato di un brand. Un’impasse informativo che però la certificazione B Corp risolve senza lasciare spazio ad ambiguità. Ciò che è più importante chiarire, però, è che sottoponendosi all’esame di B Lab, Chloé ha dimostrato nuovamente come l’unico vero antidoto al greenwashing sia l’accountability, qualcosa che va al di là di strategie marketing e dichiarazioni fatte alla stampa e che diventa una presa di responsabilità radicale, esaminabile e rigorosa.
Naturalmente i direttori creativi hanno un ruolo importantissimo in questo processo: nella sua intervista a WWD Bellini ha sottolineato come l’arrivo di Gabriela Hearst, con tutta la sua expertise sulla moda sostenibile, abbia accelerato enormemente la eco-conversione di Chloé considerato che «l’80% delle soluzioni erano già sul tavolo». Ma i vantaggi, oltre che nella reputazione, sono anche commerciali: il brand ha per esempio introdotto nella sua collezione SS22 la linea Chloé Crafts, composta di pezzi del tutto artigianali che convertono la sostenibilità in ultra-esclusività e possiedono anche un proprio logo separato a forma di spirale. Qualcosa di simile hanno fatto Loewe con la linea Eye/LOEWE/Nature, sorta di sub-collezione sostenibile, e Bode, con la linea artigianale di pezzi unici One-of-a-Kind. Ad ogni modo, la certificazione B Corp di Chloé dimostra che la risposta al problema del greenwashing è davvero tanto semplice quanto sottoporsi a un esame – qualcosa che quasi ogni famoso brand di moda, specialmente se multimiliardario, preferirebbe forse evitare per non dover poi rispondere a domande scomode. E ovviamente la certificazione di B Corp rappresenta l’inizio di una conversione verso la sostenibilità e non la fine – a dimostrazione che diventare un brand sostenibile è un processo lungo, laborioso ma soprattutto pieno di costi.