Le mega-collaborazioni di moda faranno tornare la logomania?
Fendace è solo l’inizio
27 Settembre 2021
Ieri alla Milano Fashion Week abbiamo assistito a un esperimento di come non se ne vedono ogni anno: la fusione/designer swap tra Versace e Fendi. Il principale veicolo di questo dialogo è stato il logo, o meglio i due loghi, nella cui fusione si è risolta la maggior parte di questa collaborazione o swap. Il logo è stato anche il principale e più esplicito veicolo tramite cui l’hacking fra Gucci e Balenciaga di qualche mese fa si è espresso – facendo pensare tanto all’inizio di un prossimo aumento di queste mega-collaborazioni tra i titani dell’industria quanto a un ritorno della logomania che si pensava ormai svanita insieme all’ondata streetwear vista negli ultimi anni. Questo legame con lo streetwear ha un ruolo importante perché esiste una grande differenza fra le collaborazioni luxe-streetwear del passato dalle recenti mega-collaborazioni tra brand di moda. Tanto che, nel corso del lockdown, si era sviluppato un trend dei basics, del lusso minimale sulla falsariga del Celine di Phoebe Philo, con brand come The Row, Bottega Veneta, Peter Do, che, a lockdown finito, ha visto l'ascesa della revenge fashion che vuole rifarsi dell’anno passato in pigiama con look audaci, vistosi e, in ultima analisi, edonisti.
L’evento di ieri, in effetti, non ha fatto che rinforzare il ruolo e la potenza dei loghi: a partire dalla passerella, dominata da un gigantesco doppio logo rotante, fino ai dettagli della collezione che hanno trasformato la doppia F di Fendi nel pattern greco di Versace su virtualmente quasi ogni look. È chiaro che questo ritorno della logomania, specialmente nel caso delle mega-collaborazioni, rappresenta un doubling-down dell’importanza attribuita ai loghi stessi – una mossa che guarda al mercato asiatico e soprattutto alla Cina dove, come scriveva Jing Daily poco prima del lockdown, «la logomania è collegata all'ascesa della classe media e della classe aspirazionale. Questi gruppi credono che l’ostentazione del lusso sia il modo migliore per mostrare alla società di aver raggiunto il successo personale. Poiché i prodotti veramente lussuosi per l'aristocrazia globale non rientrano nelle loro fasce di prezzo, questi consumatori cercano alternative legittime. […] La maggior parte dei consumatori della classe media può permettersi accessori che hanno loghi di lusso stampati dappertutto». Il rischio che qui si corre, però, è che tutto finisca per risolversi nel solo logo, specialmente considerato come in questa collaborazione l'identità visiva di Versace cannibalizzi quella di Fendi. Come Jordan Anderson ha scritto su Instagram poco dopo lo show: «Qual è di preciso il DNA di Fendi e dove si trova in questa collezione? [...] Non c'è traccia di Fendi o della sua storia oltre i loghi [...]. L'hacking tra Gucci e Balenciaga aveva funzionato la scorsa stagione [...] perchè era fra due designer, Alessandro e Demna, che hanno creato stili ed estetiche riconoscibili negli anni che si sono mescolate insieme. Kim Jones invece è appena arrivato da Fendi e sta ancora cercando di capire la direzione verso cui portare il brand».
La logomania entra in ballo anche nella recente wave della moda nostalgica verso l’epoca dell’estetica Y2K, delle borse di Louis Vuitton metallizzate e delle tute di Juicy Couture; come anche nel nuovo ruolo che la moda ha assunto nella definizione delle identità delle nuove generazioni. Non è dunque solo una questione di status sociale ma anche di valori e filosofie personali, tutte sintetizzabili in un semplice logo. Harmeet Bajaj, un marketing strategist intervistato lo scorso giugno da The Voice of Fashion, ha detto: «Per molti, i loghi non comunicano solo lo status ma anche la propria personalità e identità. Indossare anche un brand sostenibile con un logo […] comunica i loro ideali e il loro allineamento ai valori del brand». Questi valori, poi, vanno a sposarsi con il ritorno in auge del vintage che grazie a piattaforme come Vestiaire Collective, Grailed e TheRealReal ha visto una significativa re-immissione sul mercato secondario di articoli iper-logati di brand come Gucci e Louis Vuitton.
Tanto “Fendace” che “Gucciaga”, come anche le altre mega-collaborazioni che vedremo in futuro, ricadono infine nel macro-trend del dopamine dressing spiegato sulle pagine di GQ dalla psicologa e autrice Dawnn Karen come «la scelta di abiti che facciano sentire felici, risollevino lo spirito e facciano sentire migliori, più forti, più potenti». Un tipo di sensazione che, pur possedendo i suoi aspetti soggettivi, non può che non essere affidata ai simboli e significanti più immediati e visibili della moda, i loghi, ma anche ai colori accesi, ai design provocanti e sensuali e a un generale edonismo visivo di cui Fendace, ieri, è stato una delle più potenti e rilevanti espressioni.