Matthew Williams, le accuse di plagio e il vero ruolo dei direttori creativi
Una moda inclusiva significa un brand storytelling inclusivo
26 Agosto 2021
Ieri pomeriggio Diet Prada ha lanciato un nuovo call-out verso uno dei pesi massimi dell’industria della moda, Matthew Williams. L’accusa, partita in origine dalla ex-modella Athena Currey, è quella di aver copiato il lavoro del designer Benjamin Cho, scomparso nel 2017, replicando i suoi abiti composti da trecce di seta che si avvolgono diagonalmente intorno al corpo creando un effetto di trasparenza. Un abito creato con questa tecnica è stato uno dei cavalli di battaglia della scorsa collezione FW21 di Givenchy, apparendo di recente anche indosso a Beyoncé in uno shooting per Harper's Bazaar, ma, come evidenziato da Diet Prada, la somiglianza con gli abiti della collezione SS01 di Benjamin Cho è qualcosa di lampante. Ulteriori aggiunte nella IG Story di Diet Prada, che includono anche un DM del fashion editor di Paper Magazine, Mario Abad, hanno affermato che Cho non era stato menzionato nella press release – come anche nessun articolo a proposito della collezione lo menzionava. A rendere le cose più complicate, c’è anche l’amicizia fra Cho e Williams, il quale aveva lavorato per il designer all’inizio della sua carriera e che, dopo i commenti di ieri, ha scritto una IG Story, poi cancellata, in cui riconosceva che l’abito fosse un “omaggio” a Cho.
La complicata questione degli omaggi nella moda
Le accuse di plagio non sono una completa novità per il Givenchy di Matthew Williams, che solo otto mesi fa è stato accusato da K. Tyson Perez, founder del brand Hardwear Style, di aver copiato il design di un bucket hat di pelle decorato da una cerniera metallica - poi ritirato dalla produzione dopo il call-out. Altro omaggio di Williams durante lo show FW21 di Givenchy è stato ai celebri Armadillo Boots di Alexander McQueen oltre che a vari elementi che ai più fashion-savy hanno ricordato i lavori di Martin Margiela ed Helmut Lang. Ma la questione degli “omaggi” nella moda va molto più indietro di così: quasi ogni brand è stato accusato di copiare e plagiare gli altri, anzi, è da un’accusa di plagio che è nato il rapporto fra Gucci e Dapper Dan, mentre le accuse di plagio sono piovute da sempre addosso a Virgil Abloh, con la più recente che risale all’altroieri, e negli anni hanno coinvolto un po’ tutti da Balenciaga,Versace, Chanel, Moschino, Dior, Michael Kors e Bottega Veneta solo per citarne alcuni.
Gli “omaggi” di questo tipo risalgono alle origini stesse della moda come la conosciamo: nel video-essay The Designer Debate: Balenciaga vs. Givenchy, lo storico della moda Henry Wilkinson racconta come lo stesso Balenciaga pescasse a piene mani dal lavoro della couturier Madeleine Vionnet e come i design di Hubert de Givenchy spesso fossero creati in una sorta di osmosi estetica con quelli di Balenciaga. Tutti questi episodi, che sono forse troppo numerosi per poterli contare, fanno parte della natura stessa dell’industria della moda ma, date le sue dinamiche politiche ed economiche, oltre che creative, diventano assai problematici quando una grande azienda internazionale sottrae concept a designer indipendenti, di nicchia senza dar loro alcun credito o ricompensa di sorta quando in effetti basterebbe una semplicissima menzione e magari anche una forma di accordo commerciale che possa aiutare i designer più piccoli a farsi conoscere per i propri meriti. Ma una pratica simile, a cui i grandi brand di moda si riducono soltanto se costretti dall’opinione pubblica, non è apprezzata perché romperebbe la fondamentale illusione scenica che vede il direttore creativo come l’assoluto demiurgo della creatività di un brand.
Il protagonismo dei direttori creativi
In una recente intervista rilasciata ad Highsnobiety di nome The Fashion Industry Says It’s More Open, But Is It Really? condotta da Cristopher Morency, il giornalista indipendente e youtuber Odunayo Ojo ha detto:
«Una cosa che ho sempre trovato molto frustrante è il sistema per cui ai designer piace comportarsi come se tutto provenisse da loro, quando non è così. […] Ogni direttore creativo ha molti assistenti che gli portano idee. E quando il prodotto finale è realizzato […] si prendono tutto il merito per coltivare la loro aura».
Sottolineando di fatto come la narrativa degli uffici stampa spesso descriva i direttori creativi come i giornali di cinema descrivono i registi, cioè come i singoli autori di un lavoro che è stato sì diretto da lavoro ma rimane lo sforzo collettivo di un largo team che rimane invece nell’ombra. La differenza è che al cinema i titoli di coda elencano anche il nome dell’ultimo degli assistenti, mentre alla fine di una sfilata a uscire in passerella e inchinarsi c’è soltanto una persona che appare illusionisticamente responsabile dell'intera collezione. L’illusione è necessaria per fini strettamente narrativi e commerciali, serve un solo volto, una sola superstar che il pubblico possa chiamare per nome, e dunque se ci sono troppe ispirazioni o rimandi si correrebbe il rischio di pregiudicare il ruolo-cardine del direttore creativo – ma il mondo della moda si sta muovendo verso nuove direzioni, dove la collezione diventa sempre di più un modello collaborativo e aperto, come è stato ad esempio l'ultimo show di Dior Homme, in cui il direttore creativo si discosta dal ruolo fittizio di autore assoluto e diventa il curatore di una collettività o community che ha contribuito allo sforzo artistico e produttivo.