I brand di moda sono ancora in grado di imporre nuovi canoni estetici?
Cosa succede quando Chloé posta su Instagram una foto di Paloma Elsesser, modella plus size
16 Giugno 2021
Qualche giorno fa sulla pagina Instagram di Chloé sono comparse, tra post bucolici, immagini di fiori e dettagli di petali, le foto di una modella nuda, con i lunghi capelli bagnati, sdraiata su una spiaggia dalla sabbia nera, a simboleggiare l'importanza del rapporto tra uomo e natura, da sempre uno dei temi più cari a Gabriela Hearst, neo direttrice creativa della maison. Fin qui non ci sarebbe nulla di strano, non è la prima volta che un brand di moda ritrae una modella nuda, e non sarà di certo l'ultima, se non fosse che la modella scelta da Chloé è Paloma Elsesser, una delle modelle plus size e body positivity advocate di maggior successo degli ultimi anni, che insieme a Jill Kortleve e Ashley Graham, sta cercando di portare maggiore diversity sulle passerelle e nelle campagne di moda.
Se i commenti degli utenti della pagina IG di Chloé erano già piuttosto scettici e critici nei confronti della nuova direzione intrapresa del brand, le immagini di Elsesser hanno scatenato reazioni durissime. Oltre ai soliti commenti di body shaming, qualche utente ha commentato scrivendo "This is not necessary", "Why", "And what has nudity got to do with your bags and clothes???", oltre ai centinaia di "Unfollow", come per insinuare che quella di Chloé fosse un'operazione di show-off ben calibrata per scatenare la tempesta di commenti che puntualmente è arrivata. In queste reazioni non c'è nulla di sorprendente, ma il caso Chloé, se così vogliamo chiamarlo, ha poco a che fare con la body positivity, ma impone invece una riflessione sul ruolo che hanno i brand di moda nella formazione di un gusto condiviso, nell'imposizione di un canone di bellezza comune.
Nel scegliere Paloma Elsesser Chloé ha preso una decisione politica ed estetica, dettata dall'intenzione di lanciare un messaggio molto chiaro nel settore, soprattutto nel panorama del lusso, dove la diversity fa ancora fatica a prendere piede, e dove farsi portavoce del movimento è relativamente facile. Come sottolinea bene un utente su IG, si tratta di un'operazione di marketing efficace, una mossa di successo per la brand reputation, che non cancella però il fatto che per quante modelle possano solcare la passerella durante uno show (in media non più di tre), le taglie dei vestiti in negozio non vanno mai oltre la 44.
La prerogativa del lusso tradizionale è l'aspirazionalità, il mostrarci continuamente come potremmo essere e quello che potremmo avere, attraverso immagini patinate di modelli perfetti, felici e in forma. Quel tipo di lusso, però, non ha più la stessa forza di un tempo davanti ad un mondo che è cambiato e che ha imposto anche al luxury una transizione verso la realtà e la diversità, lasciando da parte i sogni irrealizzabili che ha raccontato negli ultimi anni. Non siamo stufi di comprare un sogno, non è ora di identificarsi davvero in ciò che compriamo e nel modo in cui ci viene presentato? È così impensabile che nella vita reale una donna come Paloma Elsesser voglia indossare qualcosa di Chloé?
Pensiamo a quel polverone inutile che si era scatenato intorno ad Armine Harutyunyan, la modella armena scelta da Gucci per diverse sfilate, che per molti non era all'altezza di salire su una passerella perché brutta o semplicemente troppo strana. Ma quel volto per molti così atipico si inseriva perfettamente nell'estetica introdotta da Alessandro Michele da Gucci, una corale rappresentazione di tutto ciò che non si era mai visto in una maison di moda (fatta eccezione per le persone grasse…). Hedi Slimane crea cloni scheletrici in qualunque maison lavori, sia che si tratti di Saint Laurent che di Celine, Versace aveva regalato una fama senza precedenti a top model dal fisico tonico e perfetto, Prada aveva reso modelle emaciate ed esili l'apice del minimalismo anni Novanta. Ognuno ha il suo modello estetico di riferimento, e forse l'unica ad averne introdotto uno realistico perché vario in tutte le sue componenti è Rihanna con Savage x Fenty - e non è un caso che non si tratti di una designer nel senso più tradizionale del termine - così come Calvin Klein nelle ultime stagioni ha fatto un lavoro importante nella scelta di testimonial di ogni etnia e body type. Si tratta certamente di operazione commerciali, nate per essere provocatorie e per far parlare di sé, ma che alla lunga contribuiscono nell'effettivo all'evoluzione della cultura pop e dell'estetica dominante.
Il movimento della body positivity non afferma che tutti i corpi sono belli, ma che tutti i corpi sono validi, degni quindi di essere visti, mostrati, raccontati e fotografati. Forse ora è arrivato il turno di Chloé di imporre un modello estetico diverso, che diverso poi non è, ma è semplicemente il riflesso puntuale di una realtà composita, in cui donne con la taglia 38 e 46 hanno lo stesso diritto di indossare un capo firmato Gabriela Hearst.