Perché nessun brand si sta esponendo sulla guerra in Palestina?
La guerra in Palestina sottolinea i limiti del brand-activism
12 Maggio 2021
Nelle ultime ore l’escalation di violenza in Palestina tra l’esercito israeliano e i vari gruppi palestinesi ha raggiunto un livello da stato di guerra che non si verificava da anni. La pioggia di razzi sulle città israeliane spesso intercettati dal sistema anti-missile israeliano dà una dimensione della drammaticità degli ultimi giorni in cui le violenze hanno provocato un numero ancora imprecisato di morti da entrambe le parti (Reuters parla di 35 morti palestinesi a Gaza causati da bombardamenti israeliani solo nella notte tra martedì e mercoledì). La reazione della comunità politica internazionale è stata molto ingessata e limitata ad appelli di pace come spesso accade quando si tratta di violenze in Palestina, mentre sui social molti attivisti hanno diffuso video di bombardamenti e scontri, oltre che post per spiegare la situazione nella maggior parte dei quali si evidenziano le responsabilità storiche di Israele. Tra le tante voci sui social, i profili dei brand di moda sono rimasti in un silenzio assordante e un pizzico imbarazzante se confrontato con la corsa social su #BLM e molti altri eventi politici avvenuti negli ultimi mesi.
Si può giustamente argomentare che il conflitto israelo-palestinese non è un argomento che può interessare un brand di moda, eppure la neonata pratica del brand activism - descritto come la volontà da parte dell’azienda di assumersi responsabilità in ambito sociale - ha mostrato tutti i suoi limiti: è facile schierarsi in battaglie su cui è facile essere d’accordo (il razzismo, il DDL Zan, l’equal pay) e mobilitare la propria forza mediatica verso quella battaglia, meno facile è schierarsi su questioni che presuppongono una presa di posizione che scontenta qualcuno. Ad oggi, tra le personalità più notevoli del mondo della moda che hanno parlato della questione c’è Diet Prada, che ha postato una serie di meme-spiegoni sulla storia e gli errori di narrazione sulla questione palestinese ma soprattutto Gigi Hadid, la cui famiglia ha origini palestinesi. Proprio Hadid ha nel suo post ha sottolineato quanto sia ipocrita “pick and choose” quali diritti umani sono giù importanti di altri.
La verità è che nonostante un cambiamento sociale inequivocabile, è sbagliato aspettarsi che siano aziende private ad indirizzare battaglie politiche e sociale che presuppongono una rottura, perché sceglieranno sempre una via di risoluzione che salvaguardi il business. Nonostante la riduzione ad un post su Instagram di un conflitto così stratificato e complesso diventa ovviamente una banalizzazione che sfocia nell’attivismo performativo, tuttavia attivazioni di brand come ANTI-DO-TO - che ha costruito una rampa da skate a Gaza - o un semplice appello per la pace possono essere strumenti per catalizzare attenzione e spingere utenti a ricercare più informazioni.