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Cosa dicono la chiusura di Alife a New York e l'apertura di Supreme a Milano

Il destino di due store per capire il futuro dello streetwear

Cosa dicono la chiusura di Alife a New York e l'apertura di Supreme a Milano Il destino di due store per capire il futuro dello streetwear

Mentre a Milano si inaugurava l'arrivo ufficiale di Supreme sul suolo italiano, a circa 6mila chilometri di distanza un'istituzione del mondo streetwear si preparava ad abbassare definitivamente la serranda con la chiusura dello store Alife di Rivington Street. Più di un semplice negozio, lo store del brand fondato da Rob Cristofaro, Arnaud Delecolle, Tony Arcabascio e Tammy Brainard era nato con uno scopo preciso: riempire un vuoto culturale e creativo che imperversava a New York verso la fine degli anni '90. Prima ancora di essere un brand Alife è stato un laboratorio, un punto di incontro in cui i creativi potevano connetersi in una fitta rete di idee e suggestioni che hanno controbuito concretamente a creare quello che oggi, forse impropriamente, chiamiamo streetwear.

Negli anni lo store è stato teatro dei live di Drake, Nas, John Mayer e King Krule, mentre il brand si imponeva nel mondo street accogliendo nell'Alife Rivington Club collabo con brand come Nike, PUMA, Reebok e adidas. Nato come un collettivo, l'unicità di Alife era quella di offrire il banale in modo unico, come ammesso da uno dei suoi founder, Rob Cristofaro: "Era praticamente lo stesso prodotto che avresti trovato a un isolato di distanza, ma immaginato in un nuovo contesto e pensato per dare alle persone un'esperienza unica ogni volta che entravano nello store. Era questa l'idea per creare un ambiente che fosse diverso da tutti gli altri." Leggendo le parole di Cristofaro è impossibile non pensare immediatamente al nuovo store Supreme appena inaugurato in Corso Garibaldi, tredicesima bandierina del brand newyorchese che ha trasformato lo streetwear in pop culture arrivando a una fetta di pubblico sconosciuta ai suoi competitor. Se a Rivington Street Alife aveva voluto creare uno spazio unico nel suo genere, l'idea dietro gli store Supreme ricorda fin troppo quella di un brand come Apple, capace di imporre la propria immagine in qualsiasi spazio si presenti.

Dietro questa strana coincidenza si nasconde però anche un altro significato, quello che per molti potrebbe segnare la fine dello streetwear come lo conosciamo aprendo le porte a una nuova fase, la fine della bolla in favore della massa. È innegabile che Supreme sia arrivato in Italia nel suo momento di discesa, quando l'hype sembra ormai alle spalle verso un futuro che potrebbe vedere il brand di James Jebbia assumere una nuova forma, abbandonando l'idea di una realtà "per pochi"in favore di una maggiore apertura. Una nuova dimensione pop che potrebbe portare il mondo streetwear e la vasta giungla di brand che ne fanno parte verso la necessità di abbandonare la bolla per sopravvivere a una nuova fase di cambiamento. Se Stussy ha in parte già fatto questo passo in avanti, realtà come Palace si troveranno costrette a sceglie da che parte stare, ma soprattutto se andare avanti nella direzione intrapresa da Supreme o se finire nel baratro dello streetwear che ha in parte già accolto nomi un tempo illustri come Anti Social Social Club, BAPE e Undefeated. Realtà che sono rimaste bloccate in un'epoca ormai sorpassata, quando nascondersi significava farsi vedere e le sottoculture dettavano legge. Un mondo che ormai sembra lontano anni luce mentre il trend sembra essersi invertito e stare ovunque sembra essere diventato l'unico modo per sopravvivere. L'ha capito Kanye West, che con GAP porterà Yeezy in tutto il mondo, e l'ha capito anche Supreme, che continua ad espandersi nonostante un trend in ascesa. È il cerchio della vita, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Anche lo streetwear.