La storia dell’omicidio Gucci – E03 “Colpevoli”
Il terzo e ultimo episodio della serie true crime dedicata all'omicidio Gucci
05 Maggio 2021
Tre appuntamenti - ogni mercoledì - per raccontare la storia di Maurizio Gucci e tutti gli eventi che la precedettero. Il primo episodio, che racconta dell'ascesa di Maurizio ai vertici dell'azienda, può essere letto cliccando questo link mentre il secondo, che ricostruisce l'omicidio è disponibile a questo link.
Per farlo, abbiamo diviso la storia in tre episodi, focalizzati rispettivamente sull'ascesa di Maurizio Gucci ai vertici dell'azienda, sul suo omicidio e sulle indagini che ne scaturirono. Per comodità espositiva, presentiamo qui sotto un sintetico albero genealogico della famiglia Gucci in cui abbiamo evidenziato i protagonisti principali dei fatti.
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Nelle ore che seguirono l’omicidio di Maurizio Gucci, Patrizia Reggiani iniziò a essere assediata dai giornalisti. Li riceve nel salone del suo attico di San Babila, spettinata, e vestita umilmente. Si rifiuterà di rilasciare dichiarazioni, dicendo che tutto ciò che sa verrà pubblicato nel memoriale che sta scrivendo (e che non sarà mai pubblicato) anche se poi, al telefono, dice a un membro della stampa che le chiedeva come si sentisse: «Umanamente mi dispiace. Ma dal punto di vista personale non posso dire la stessa cosa». Tre quarti d’ora dopo la morte di Maurizio, Patrizia è in corso Venezia 38 insieme alle sue figlie, la casa in cui Maurizio viveva con la nuova compagna, Paola Franchi. Si fa aprire con la scusa che la piccola Alessandra desidera prendere un maglione di suo padre come ultimo ricordo – tutta una scusa per controllare che mobili e oggetti di pregio siano ancora lì.
Accusando la Franchi di avere fatto sparire dell’argenteria e dei tendaggi la scaccia dalla casa e ci si trasferisce, secondo alcuni resoconti dorme nello stesso letto dove dormiva Maurizio, e inizia a dare feste «di una mondanità un po’ a buon mercato», come dice a Repubblica un amico anonimo della vittima. Sulla sua agenda Cartier, nella pagina corrispondente al giorno dell’omicidio, è scritta solo la parola greca Paradeisos. A pochi mesi dal delitto, a luglio, Patrizia andò in vacanza: una lunga crociera sul Crèole, il veliero maledetto. Durante la vacanza, fermatasi a largo del Portogallo, riceve persino l’ex-avvocato di Maurizio, Giuseppe Parodi, a cui chiede di trasferire sul proprio conto i soldi depositati in quello delle figlie - ma non ci riuscì.
Piste fredde
Nel frattempo le indagini della polizia si perdevano in diverse potenziali direzioni – rivelatesi già tutte false. Eppure il cugino Paolo Gucci, reduce anche lui da problemi con la legge e destinato a morire a pochi mesi di distanza da Maurizio, aveva detto e ripetuto che quell’omicidio non era stato dettato da moventi finanziari. Eppure gli inquirenti le dissero tutte, specialmente dopo che l'apertura dei documenti della nuova società di Maurizio rivelarono debiti quasi miliardari: si ipotizzò che fosse stato ucciso per debiti, punito per investito in un casinò e manipolato il denaro, punito addirittura da killer internazionali arabi o russi per chissà che sgarro. A un certo punto spuntò il nome di Delfo Zorzi, un neofascista coinvolto nella strage di Piazza Fontana, che aveva prestato dei soldi a Maurizio – ma anche quella è una pista falsa. Per due anni si cercò eppure nulla emerse. Nell’estate del ’96 il nome di Maurizio Gucci sparì dai giornali. Ma ci sarebbe presto ritornato. Verso la fine dell’anno però arriva una telefonata: al telefono c’è un tale Gabriele Carpanese, uno dei resident dell’albergo in cui si lavorava Ivano Savioni, che racconta una storia a metà fra la tragedia e la farsa che condurrà all’arresto dei colpevoli dell’omicidio Gucci.
Ai piani bassi
Dopo il compimento dell’omicidio, cominciarono a esserci problemi di soldi. Orazio Cicala aveva intascato la fetta più grande della torta, 350 milioni di lire che furono prontamente bruciati al tavolo da gioco; Benedetto Ceraulo incassò 150 milioni che furono investiti nella costruzione di una casa; Ivano Savioni, che si era occupato della “logistica” dell’omicidio aveva ricevuto 50 milioni che però furono mangiati dagli strozzini mentre Pina Auriemma ne riceveva 3 al mese da Patrizia come vitalizio. Nessuno di loro era contento e, dopo che Patrizia si era rifiutata di dar loro altro denaro, vollero ottenerne ancora ricorrendo all’intimidazione. La banda allora si attrezzò per trovare un nuovo sicario che avrebbe dovuto minacciare Patrizia dopo averla rapita mentre si recava dal suo parrucchiere in Piazza San Babila arrivando, eventualmente, anche a ucciderla. Qui entrò in gioco una figura che venne ribattezzata in seguito il “Supertestimone”, ossia Garbriele Carpanese, un cuoco spiantato che dopo aver girato mezzo mondo in cerca di fortuna era tornato in Italia senza un quattrino. Carpanese risiedeva nell’Hotel Adry, dove lavorava Savioni, insieme alla moglie malata di cancro e si presentò al complice del delitto millantando di essere un narcotrafficante con amici in Colombia e in attesa di denaro – una bugia un po’ strampalata detta per non pagare il conto dell’hotel.
Eppure Savioni gli credette e, pensando di avere trovato il sicario che cercava, gli raccontò tutta la storia dell’omicidio. Carpanese era convinto che i guai di Savioni riguardassero una rapina o una truffa, non aveva la minima idea di inciampare in uno dei più grandi omicidi irrisolti degli anni ‘90. Dunque decise di denunciare tutto alla polizia: chiamò prima il pubblico ministero Nocerino che non gli rispose, e poi contattò il Criminalpol di Milano affermando di avere informazioni importantissime sugli assassini di Maurizio Gucci. La notizia arriva proprio nel momento in cui le indagini erano state prorogate per l’ultima volta prima di essere archiviate: se Ivano Savioni avesse taciuto, se gli altri membri della banda non fossero stati avidi, il caso sarebbe ancora insoluto. Carpanese si mise d’accordo con la polizia per incastrare i colpevoli: venne avvisata una missione sotto copertura. Un poliziotto infiltrato si finse un narcotrafficante di nome Carlos e venne presentato a Savioni come il faccendiere di un boss colombiano di nome Hermann. Nel presentare il finto killer a Savioni, Carpanese cita pure Pulp Fiction: «Lui è Carlos, risolve i problemi». Savioni e la Auriemma sono così disperati e felici di avere trovato il loro sicario che raccontano tutto al killer, anche se in termini vaghi, finendo poi per fare il nome della Reggiani. Nel frattempo l’auto di Savioni viene riempita di microspie e i telefoni della Reggiani finiscono sotto controllo. In breve le prove sulla colpevolezza di Patrizia e della strana banda di criminali riunitasi intorno a lei si accumularono e scattarono gli ordini di cattura.
Alle cinque meno un quarto di venerdì 1 febbraio 1997, la Criminalpol irrompe nell’appartamento di Corso Venezia in cui abitava Patrizia. Lei è nel corridoio, indossa una vestaglia e non batte ciglio quando le mettono in mano le trentotto pagine del mandato di cattura. Risponde solo «Bene», ossessivamente, mentre per le successive due ore la polizia perquisisce tutta la casa. Viene portata in caserma indossando un visone e orecchini d’oro. A mezzogiorno viene trasferita in una cella d’isolamento in San Vittore. Nel frattempo la polizia ha arrestato tutti quanti i complici dell’omicidio: il primo a cantare è Ivano Savioni che firma immediatamente una confessione lunga dieci pagine. Ma Patrizia ha già pronta la sua versione dei fatti che manterrà per il resto del processo: «Hanno fatto tutto di testa loro, io non volevo che lo ammazzassero davvero». Eppure Savioni la smentisce: ha incontrato tre volte la Reggiani, una volta ad Arcore, un’altra invece al bar Giamaica in Brera – era stata la volta in cui aveva insistito per velocizzare l’omicidio, prima che Maurizio partisse per seguire le regate delle sue barche.
Il processo
Sono a San Vittore separate da poche celle, Patrizia e Pina Auriemma, quando inizia il processo, l’11 maggio del 1997. Un processo che si rivelerà apparentemente facile, data l’enormità di prove schiaccianti che tutti i complici, Patrizia in primis, si sono lasciati dietro – ma che la vedova Gucci renderà una specie di ordalia provando in ogni modo a intorbidare le acque. Prima offrendo due miliardi a Pina Auriemma per prendersi l’intera responsabilità, poi provando a discolparsi con l’incapacità di intendere e di volere a causa delle “turbe psichiche” causatele dall’operazione al tumore del 1991, infine presentando una sua personale versione dei fatti utilizzando uno stratagemma che, retrospettivamente, fa pensare a un piano abbastanza accurato: prima dell’omicidio, ai tempi in cui aveva pagato l’anticipo di 150 milioni facendosi dare una sorta di ricevuta, Patrizia aveva lasciato una busta chiusa in mano al notaio contente quel documento e un biglietto con scritto sopra che, se le fosse mai capitato qualcosa, gli inquirenti avrebbero dovuto indagare Pina Auriemma che era la vera responsabile dell’assassinio. Secondo la versione della Reggiani, respinta dai giudici, la Auriemma avrebbe fatto uccidere Maurizio autonomamente per poi ricattare Patrizia implicandola nel crimine a cose fatte.
I media di tutto il mondo osservavano il processo, che si concluse fra finti colpi di scena, tentativi di discolparsi e voli di stracci. La sentenza viene letta il 3 novembre 1998: Benedetto Ceraulo, esecutore materiale dell’omicidio, finirà in carcere a vita; Patrizia Reggiani sconterà 29 anni come anche Orazio Cicala, l’autista del killer. Ivano Savioni e Pina Auriemma ricevono invece 26 e 25 anni. La sintesi migliore dell’intera vicenda l’aveva però già data l’implacabile pubblico ministero, Carlo Nocerino, che il 21 ottobre aveva dimostrato con una meticolosa, lunga e inoppugnabile requisitoria di dieci ore la colpevolezza di tutti, analizzando in ogni dettaglio i comportamenti di Patrizia, e concludendo con queste parole:
«Ho pensato molto anche a quella morte assurda e incredibile. La morte di un uomo che mai nessuno, qui, ha tratteggiato con luce chiara. Quell' uomo è stato ammazzato perchè Orazio Cicala voleva soldi da giocare al casinò; Benedetto Cerauolo voleva portare la figlia in una casa più grande; Ivano Savioni per pochi spiccioli; Pina Auriemma per poter continuare ad essere la dama di compagnia che era. Ecco, queste sono le ragioni per le quali è morto Maurizio Gucci».
Negli anni successivi, fino alla sua uscita dal carcere nel 2013, Patrizia Reggiani tornò a far parlare di sé per i suoi bizzarri comportamenti in carcere il primo dei quali era chiamare il penitenziario di San Vittore, Victor’s Residence, quasi fosse un albergo. Daniele Pizzi, il suo legale, disse: «Il carcere non l'ha cambiata, anzi è stata lei a cambiare il carcere». Chi la visitava la trovava spesso a prendere il sole in costume durante l’ora d’aria, sempre accompagnata da Bamby, un furetto che il direttore del penitenziario le aveva concesso di tenere e che morì quando un’altra detenuta, per errore, ci si sedette sopra. Il suo successore fu un altro furetto che, alla sua morte, venne sostituito da un pappagallo. Nelle interviste successive alla scarcerazione Patrizia affermò di aver fatto conoscere il make-up e la moda alle detenute - e forse bisogna crederle considerando che ottenne l’affidamento per buona condotta e uscì dal carcere dopo 17 anni di reclusione. Durante quegli anni comunque non le era mancato nulla: il parrucchiere, il dentista e il chirurgo plastico venivano a farle visita da fuori e sulla porta della sua cella era appeso un panno nero, a mo’ di tenda, per fare in modo di non svegliarla prima delle dieci del mattino.