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Gucci, Balenciaga e quella scommessa sulla logomania

Pigrizia creativa o genio iconoclastico?

Gucci, Balenciaga e quella scommessa sulla logomania Pigrizia creativa o genio iconoclastico?
Prada FW21
Raf Simons FW21
Prada FW18
Dior Pre-Fall 2020
Raf Simons FW21
Prada FW21
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Balenciaga FW17
Balenciaga SS18
Dior Pre-Fall 2020
Fendi SS19
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Louis Vuitton FW19
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Off-White FW19
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Prada FW18

L’hackeraggio creativo di Gucci e Balenciaga, visto nel recente show della collezione Aria, è stato forse il fashion moment più importante della stagione, con tutta la sua potenza che è stata veicolata tramite un uso massimalista dei loghi giustapposti di entrambe le maison. C’era un tailleur di strass con i due loghi in lettering obliquo, lo stesso lettering del solo logo di Balenciaga era stampato attraverso un secondo completo ricoperto dalla stampa Flora di Gucci, un terzo cappotto maschile nero dal taglio molto Balenciag-esco era a sua volta coperto del monogram di Gucci in strass blu e così via. 

Ciò che ha colpito, però, è che in un’industra della moda in cui la logomania sembra retrocedere ogni stagione di più, Alessandro Michele e Kering hanno deciso invece di affidarsi ai loghi per raccontare questa unione e fare l’unica vera cosa che un brand di moda dovrebbe fare: vendere. Non a caso l’”hacking” di Balenciaga ha diviso enormemente il pubblico tra chi ci ha intravisto la definizione post-ironica di un’era della moda e chi invece lo ha considerato una bieca operazione commerciale o, comunque, un’idea troppo scontata e on-the-nose. La verità forse sta nel mezzo ma prima dobbiamo portare indietro le lancette dell’orologio. 


Una sbornia di loghi

La logomania ha una storia abbastanza lunga nella moda, che inizia già negli anni ‘80, ma il suo più recente ritorno è coinciso con la seconda metà degli anni ’10 e l’improvvisa popolarità guadagnata dallo streetwear. Il crescente mercato streetwear aveva riempito gli armadi delle giovani generazioni di item semplici come t-shirt e hoodie vivacizzati da una buona resa grafica del logo, basti pensare a Stussy, Palace o a Supreme – erano prodotti pop da acquistare a buon prezzo, riconoscibili, facili da abbinare e abbastanza correnti e quotidiani da essere indossati in ogni occasione. Un buon punto di partenza del trend potrebbe essere la collaborazione tra Supreme e Louis Vuitton nel 2017, i cui item interamente rossi erano pesantemente ricoperti da un monogramma misto che riportava i loghi di entrambi i brand. Ma le vere radici della logomania risiedevano nella cultura hip-hop con creativi come Dapper Dan che aveva intuito con anni di anticipo il potere che hanno i loghi della moda e il loro intriseco valore simbolico capace di prestarsi alle decontestualizzazioni e reinterpretazioni più interessanti.

In generale, comunque, con l’avvenuto contatto dei codici streetwear con il luxury fashion e seguendo lo straordinario successo di Virgil Abloh,  i designer si resero conto che una buona resa grafica del logo stampata su una hoodie o un accessorio valeva a elevare quell’item allo status di moda – ma anche di più: vestendo legioni di giovani di item logati, i brand potevano trasformare i clienti in inconsapevoli cartelloni pubblicitari ambulanti, senza sprecare tempo e risorse in intricati e costosi design, attingendo dall’attrattiva enorme di cui godeva lo streetwear e capitalizzando sulla nostalgia degli anni ’90 di una generazione innamorata di Instagram. Era il cocktail perfetto: poco sforzo e massima resa. Il democratico appeal dello streetwear rendeva questi capi “facilmente digeribili” per una clientela giovane e giovanissima a cui poco interessava la costruzione tecnica di un tessuto o il significato culturale di un abito, preferendo piuttosto una hoodie o un paio di sneaker che dicessero al mondo intero (e a lettere cubitali) dove erano finiti i propri soldi.

Dior Pre-Fall 2020
Dior Pre-Fall 2020
Balenciaga SS18
Balenciaga FW17
Fendi SS19
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Louis Vuitton FW19
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Off-White FW19
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Prada FW18
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Per anni loghi e monogram prosperarono. Il motivo Dior Oblique, già resuscitato illo tempore da Galliano, tornò in tutta forza nelle collezioni maschili di Dior; Riccardo Tisci da Burberry svecchiò il Check Pattern, cambiò il lettering del logo e creò un nuovo monogramma; Comme des Garçons riempì di cuoricini scarpe e t-shirt; felpe e magliette di Balenciaga spuntavano in ogni fashion week  e persino l’irreprensibile Prada iniziò a lanciare una serie di maglioni, camice e t-shirt con loghi bene in vista. Il trend non è certo esaurito: da poche stagioni Celine ha creato hoodie con logo e item ricoperti dal proprio monogramma, lo stesso ha fatto Saint Laurent con un nuovo modello di borse che riproducono la sigla YSL mentre un brand come Marine Serre è diventato famoso praticamente solo per il suo monogramma a mezzaluna. La battuta d’arresto venne nel 2019, però, con le dure parole di Virgil Abloh, forse il principale designer che aveva trainato la logomania, che annunciò la morte dello streetwear in un mercato ormai ipersaturo di hoodie e t-shirt con grafiche. All’improvviso i branding iniziarono a farsi sempre più discreti mentre gli inner circles della moda capirono che la logomania era semplicemente basic e la sola presenza di un logo non giustificava i prezzi astronomici di hoodie e magliette. 


E adesso?

Raf Simons FW21
Raf Simons FW21
Raf Simons FW21
Prada FW21
Prada FW21
Prada FW21

Oggi viviamo sul filo del rasoio: da un lato si può dire con sicurezza che il branding aggressivo di certi prodotti sia ormai molto superato; dall’altro è ovvio che chiunque acquisti un item di lusso voglia sentirsi partecipe dell’idea di lusso e farlo vedere anche agli altri. Inoltre l’idea di “logo come estetica” è rimasta, ma declinandosi sul piano del logo vintage o del decoro discreto, senza cioè che la sua presenza diventi totalizzante e invasiva  - pensiamo alle etichette “Gucci Orgasmique” sulle maniche delle giacche di Gucci SS20 o quelle di Raf Simons FW21, piccole ma ben visibili, ma anche ai loghi delle ultime collezioni di Prada, minuscoli ma paradossalmente vistosi perché piazzati in posizioni-chiave. Oggi ci avviciniamo più a un’epoca del “prodotto riconoscibile”: un item deve dire da dove proviene ma con disinvoltura e, soprattutto, il logo non deve più essere simbolo di status economico ma di appartenenza culturale. Tutti riconoscerebbero a prima vista un capo di Rick Owens, uno stivale di Celine, una borsa di Bottega Veneta o una camicia a stampa di Prada – l’identità visiva di certi brand è così forte da rendere i loghi superflui. Allo stesso tempo c’è una forte differenza fra i prodotti che trovano il consenso dei critici e quelli che guidano le vendite in negozio.

Ma allora perché Gucci insiste con la logomania? In primo luogo andrebbe forse detto che i capi più classicamente logati di Gucci sono spariti dalle collezioni del brand da anni. A Michele piacciono i pattern dal sapore vintage, è vero, ma non lo si potrebbe certo accusare di pigrizia anche perché ha dimostrato e continua a dimostrare che i pattern con cui raccontare il suo Gucci possono essere dei più vari: la collezione Overture per esempio vede una forte ricorrenza di monogrammi creativi, con i loghi più espliciti presenti solo su classici accessori come cinture e borse, mentre il nome del brand è scritto a chiare lettere solo su alcune t-shirt. L’uso forte di monogrammi e loghi “doppi” in Aria è forse più una riaffermazione della forza del logo come pilastro culturale della forza di entrambi i brand e, perché no, anche un desiderio di spingere sul mercato categorie di prodotti già redditizie che potrebbero esserlo ancora di più. Non è sicuramente un mistero che le linee Monogram siano il pane quotidiano delle vendite di una casa di moda e, se queste linee hanno un così largo successo di pubblico che dura per generazioni intere, perché rinnegarlo? Alessandro Michele l’ha abbracciato ma è ancora difficile, adesso, dire chi vorrà a seguirlo.