Sfruttare la club culture non è la risposta
Bottega Veneta ha del tutto travisato una cultura nata per includere, non per lasciare fuori
14 Aprile 2021
«Conservare l’heritage [del Berghain] e fare in modo che rimanga un luogo adatto ai veri amanti del clubbing è importante. Se fosse un posto pieno di modelle e bella gente tutta vestita di nero sarebbe gradevole forse per mezz’ora ma, Dio mio, quanto sarebbe noioso. E sarebbe anche meno tollerante».
Queste sono state le parole usate da Sven Marquardt, il leggendario buttafuori del Berghain, in un’intervista a GQ del 2015. Parole che oggi, alla luce della controversia suscitata dallo show a porte chiuse di Bottega Veneta al Berghain e al successivo party illegale alla Soho House, suonano quasi come un’inconsapevole profezia. All’indomani del party, Brenda Weischer, la creativa dietro Disruptive Berlin, è stata la prima a criticare apertamente Bottega Veneta: «A Berlino siamo in lockdown da novembre. Bottega Veneta ha avviato una production enorme al Berghain (e questo va bene) ma continuo a sentire di aperitivi e party sia lì che alla Soho House [...]. Al momento c’è un coprifuoco alle nove di sera per la gente normale». In tutto ciò anche la polizia di Berlino ha avviato indagini e la Soho House ha parlato di una «festa spontanea» finita fuori controllo. Al di là delle questioni sanitarie, comunque, ci sono due problemi con l’evento di Bottega Veneta: il primo è l’aver organizzato un party illegale nella capitale mondiale del clubbing; il secondo la contraddizione ideologica implicita nell’ospitare uno show segreto nel Berghain, cioè in uno dei luoghi-simbolo di quel movimento giovanile e collettivo, e dunque inclusivo, che fu la techno a Berlino.
Dopo il trauma della divisione della città e la caduta del Muro nel 1989, la gioventù berlinese placò la sua sete di spensieratezza, comunità e riconciliazione con il clubbing, con i rave di Love Parade e del Planet, le feste al Tresor e le serate del Berghain. Nel corso degli anni ’90 e anche in seguito Berlino divenne il crocevia del clubbing mondiale, con giovani di tutto il mondo che frequentavano i suoi locali per l’aria di comunità e di libertà che vi si respirava e per l’estrema tolleranza di cui tutti potevano godere. In realtà lo stesso Daniel Lee conosce benissimo questo ambiente di apertura e di tolleranza e in una recente intervista a 032c ha raccontato di come il clubbing abbia avuto un ruolo fondamentale nella sua crescita:
«Per me la moda riguarda la maniera in cui gli abiti possono trasformare la tua identità […]. Una cosa che ho sperimentato per la prima volta quando da giovane andavo alle serate e mi vestivo in una maniera che mi faceva sentire libero […] Non che amassi particolarmente la musica – ma il club era parte di un’esperienza liberatoria […]. Quando uscivo da giovane non c’erano smartphone e le persone andavano a ballare per divertisti – tutti erano in cerca di piacere e di libertà».
Fino ad oggi, la cultura del clubbing berlinese si era dunque fondata sull’inclusività, sulla libertà di espressione, sulla creazione di una comunità – e così è rimasta, anche se in versione digitale, quando il lockdown ha chiuso ogni venue e cancellato eventi e serate mettendo in seria difficoltà i creativi, musicisti e DJ le cui carriere orbitavano intorno a questo mondo. Questa cultura di tolleranza e inclusività si è evoluta nel tempo portando la propria visione a molte industrie diverse, incluse quella della moda. Nello specifico, poi, il Berghain ha fama di essere esclusivo, la door selection del buttafuori Sven Marquardt è leggendaria e severissima, ma il criterio di quella selezione è sempre culturale, mai socio-economico.
Il senso di dissonanza di valori aumenta ancora di più se ci si ricorda che, secondo le innumerevoli guide online alla peculiare etichetta del Berghain, abbigliamenti troppo costosi e fancy sono tassativamente sconsigliati. In questo senso, l’operazione di Bottega Veneta è del tutto antitetica agli autentici principi che hanno animato una scena culturale che l’evento di venerdì ha ridotto a sfondo teatrale, abbellimento e cornice edgy di una collezione di moda che, per altro, il brand non si è nemmeno curato di mostrare al pubblico. La short-list degli invitati era l’unico elemento narrativo importante: non la creatività né gli abiti ma solo l’esclusività, fra l’altro intesa non come sinonimo di “prestigio” ma come letterale “esclusione” di tutti coloro che non fanno parte di un piccolo club. Non esattamente la tolleranza a cui si ispira il Berghain. Dunque sorge la domanda: in un regolare giovedì sera, i bouncer del Berghain lascerebbero entrare Daniel Lee e compagnia cantante o gli direbbero di restare fuori?