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Cos'è questa storia del cotone cinese e dei brand di moda

La Cina ha oscurato i brand che hanno smesso di utilizzare il cotone dello Xinjiang, e c'entra una questione politica

Cos'è questa storia del cotone cinese e dei brand di moda La Cina ha oscurato i brand che hanno smesso di utilizzare il cotone dello Xinjiang, e c'entra una questione politica

Negli ultimi giorni, nel circuito dell'industria della moda, si è parlato molto della controversia sulla tracciabilità e sostenibilità sociale del cotone di alta qualità prodotto nella regione dello Xinjiang, in Cina, responsabile del 20% della produzione di cotone mondiale. L'accusa principale che viene mossa alla Cina è quella di utilizzare il lavoro forzato di circa un milione di prigionieri Uiguiri, detenuti in "campi di rieducazione" proprio in quella regione. Ecco un breve riassunto della questione: 

  • Il 21 ottobre 2020 la Better Cotton Initiative, associazione di brand e produttori di cotone, annuncia che da marzo ha interrotto le sue attività nella regione, incluse quelle di certificazione sull’eticità dei metodi di raccolta. Poco prima il Worldwide Responsible Accredited Production aveva fatto lo stesso. 
  • Il 13 gennaio 2021 gli USA hanno imposto un veto alle importazioni di cotone dello Xinjiang asserendo che fossero il prodotto del lavoro forzato della comunità musulmana degli Uiguri cinesi, detenuti in campi di “rieducazione”. Altri paesi, fra i quali quelli dell’UE, hanno aderito al veto poco dopo. La Cina definisce ufficialmente una «bugia politica» l’accusa sul lavoro forzato.
  • Alcuni brand come H&M, Nike, adidas, Tommy Hilfiger, Converse, Burberry e New Balance e in generale i vari membri della Better Cotton Initiative hanno annunciato che avrebbero sospeso l’uso del cotone dello Xinjiang. 
  • Il 24 marzo 2021, H&M viene oscurato da tutte le principali piattaforme e-commerce del paese come Tmall, Taobao, JD.com e Pinduoduo. 
  • Nei giorni successivi Nike, adidas e Burberry iniziano a perdere tutti i brand ambassador e gli influencer cinesi, che rescindono contratti e mettono fine a collaborazioni. In modo più eclatante, la collaborazione fra Burberry e il videogioco Honor of Kings viene annullata. 
  • Le azioni di brand cinesi come Li-Ning e Anta Sports aumentano di valore mentre quelle degli altri brand calano. Il giapponese Muji, Inditex e Hugo Boss non aderiscono al veto del cotone adducendo come scusa l’elevata qualità del cotone dello Xinjiang. 


Cosa significa questa controversia per il mondo della moda?

L’industria del lusso dipende dalla Cina, dal suo mercato e dal potere di acquisto dei suoi abitanti: secondo diversi report, infatti, entro quattro anni il mercato cinese sarà responsabile della metà di tutte le vendite nel mondo del lusso. Allo stesso tempo, l’eticità delle proprie pratiche è diventata un importantissimo selling point i brand di moda. Tutti i brand che hanno sollevato domande scomode sulla natura dei “campi di rieducazione” in cui sono detenuti circa un milione di Uiguri sono stati ostracizzati dal ricco mercato cinese – cosa che implica un potenzialmente disastroso impatto sul giro d’affari degli stessi. Al contrario, i brand che promuovono con orgoglio l’uso del cotone dello Xinjiang vengono “premiati” ottenendo più vendite e un rialzo degli indici di borsa. 

In ultima analisi, comunque, questa situazione, ancora in evoluzione, ha aperto scenari preoccupanti per il futuro della moda. Se i brand di lusso dipendono dalla Cina, potranno in futuro divergere dall’agenda politica del paese di fronte a sospetti gravi come quelli dei campi di lavoro forzato? Oppure dovremmo aspettarci un’industria della moda asservita a questa agenda nonostante le dichiarazioni di eticità e sostenibilità? Gli outcome possibili sono due: 

  • Volendo evitare i possibili danni economici, i grandi nomi della moda potrebbero decidere di tenersi lontani dalla questione – esponendosi però a potenziali controversie in Occidente e negli Stati Uniti dove, paradossalmente, la questione degli Uiguri è conosciuta dal pubblico in più dettagli che in Cina. 
  • In blocco, i grandi brand di moda europea potrebbero invece denunciare la situazione facendo fronte comune. A quel punto sarebbe complicato oscurarli tutti o ostacolare i loro molti business in Cina – anche se rimarrebbe il problema dell’opinione pubblica nel paese, in cui già i brand “ribelli” sono stati accusati di aver offeso l’intera nazione con i loro sospetti.