La moda del DIY
Una tendenza che riflette una nuova mentalità, ristabilendo il rapporto tra brand e consumatori
21 Febbraio 2021
Tra le numerose conseguenze che la pandemia ha avuto sulla nostra quotidianità, c’è senza dubbio la diffusione e il successo di un nuovo approccio alla moda. Nuovo non in senso assoluto, ma temporale, che dopo essere rimasto a lungo sopito è stato riscoperto nei mesi che ci hanno costretto a restare chiusi in casa. Senza nulla da fare, senza impegni e senza una vera motivazione per uscire di casa, abbiamo riscoperto la manualità dei nostri gesti, per cucinare, stendendo impasti e facendo esperimenti gourmet; per finire quel puzzle che avevamo iniziato nel '99; per cimentarci nella creazione di candele e vasi, anche senza essere in una scena di Ghost; o provando con le nostre mani a realizzare qualcosa da zero, come abiti o accessori. Il DIY, il do-it-yourself, è diventato quindi una componente imprescindibile della nostra visione di moda, non più statica e passiva, fatta di forme e colori imposti da altri, ma esperienziale, materica, concreta, originale e personale. Nei mesi pandemici sono proliferati i tutorial su come fare la maglia, per dare vita a capi crochet, accessori e cappellini knitwear, facendo scoprire e riscoprire il passatempo preferito delle nostre nonne. Allo stesso modo, tutto ciò che abbiamo comprato in questi mesi, soprattutto se vintage, è diventato un nuovo terreno su cui sperimentare le nostre skills da neofiti, trasformando e adattando i nostri acquisti in base al nostro corpo e al nostro gusto. Siamo diventati agenti attivi nella nostra relazione con la moda, un cambiamento di prospettiva che non è sfuggito ai brand.
Sono infatti sempre di più i marchi che stanno andando incontro a questa tendenza, offrendo prodotti da comporre, da finire, o da realizzare da zero, aggiungendo una componente esperienziale in un’azione che solitamente non ne ha. L'ultimo in ordine di tempo è stato Sunnei, che attraverso il progetto Do What You Want, ha realizzato T-shirt e long sleeve genderless a tinta unita che possono essere customizzate con il logo del brand, che può essere applicato in qualsiasi punto dell'item. Non molto tempo fa Vibram aveva presentato l'iniziativa Kit Component, un pack speciale contenente due tomaie e tre varianti di lacci da assemblare seguendo il video tutorial e le istruzioni presenti sulla scatola. Aveva preso parte al progetto anche Rayon Vert, brand di ricerca fondato a Milano nel 2017 che fa del DIY e della sperimentazione due dei suoi pilastri. È questo il principio che anima il libro Open Source Fashion Cookbook, un libro di “ricette” di ADIFF che da consigli pratici su come creare nuovi capi, o aggiungere dettagli come tasche e cappucci, ad item già nel nostro armadio, dandogli nuova vita. Sono figli di questa tendenza anche Rat Hat, Cavia, Kundalini Knitwear, Memorial Day e il neonato Ketten Studio.
Oggi sono i brand di moda a fornire al cliente un prodotto non finito o incompleto, una tabula rasa su cui il consumatore può dare sfogo al proprio gusto e alla propria estetica, modificandolo in base alle necessità. L'espansione e il nuovo approccio verso questo fenomeno si inseriscono in un contesto di grande attenzione verso tutto ciò che non solo può essere customizzabile e quindi unico, ma verso tutto ciò che è sostenibile e consapevole verso l'ambiente. Come raccontavano anche i founder di Rayon Vert ad nss magazine: "Crediamo nel perseguimento di una condizione in cui ognuno sia in grado di produrre i propri capi di abbigliamento e accessori, così facendo: le linee di produzione di bassa qualità diventeranno obsolete, supportando l'autoproduzione e le imprese locali. Si stabilirà una maggiore connessione tra gli utenti, i loro indumenti e attrezzature incoraggiandoli a ripararli e re-utilizzarli quando possibile. Trasmetteremo le conoscenze necessarie agli utenti per espandere il design dell'articolo in base alle loro esigenze, riducendo così l'impatto ambientale della produzione di massa".
Le iniziative dei brand, che diventano sempre più consapevoli - e fautori - del fenomeno appaiono quasi come una risposta necessaria e attesa alle richieste e ai nuovi interessi che le generazioni più giovani stanno manifestando, in particolare su YouTube e TikTok. Su queste due piattaforme, infatti, è cresciuto in modo esponenziale il numero di contenuti dedicati al #ThriftFlipping, la prassi per cui capi vintage o di seconda mano vengono tagliati, cuciti e riassemblati secondo il gusto - e la taglia - dell'utente. Nonostante le (sterili) polemiche verso il fenomeno, è innegabile che si tratti di un modo innovativo, interessante e creativo per adattare capi usati, quindi sostenibili, al gusto contemporaneo.
Le iniziative dei brand e la risposta indiretta degli utenti riflettono un cambio di mentalità, che si muove su due binari intrecciati, che uniscono la creatività personale e la possibilità di realizzare item unici nel loro genere, a un approccio green che riduce sprechi e che non fa affidamento su grandi produzioni. Se da una parte l'interesse dei consumatori, in particolare quelli più giovani, appare autentico e genuino, resta da capire quanto l'industria della moda punterà e crederà nel fenomeno.