C'è un problema con gli influencer che rivendono i gift
Dopo l'ultima polemica, nss magazine ne ha parlato con Andrea Batilla
20 Novembre 2020
nss magazine
Lo scorso weekend Instagram ha visto nascere una polemica molto accesa che ruotava attorno al profilo Depop di un’influencer con un grande seguito, un piccolo fatto che racconta un universo più grande. La proverbiale shitstorm si è scatenata contro Giulia Torelli aka @rockandfiocc, seguitissima blogger e influencer based a Milano che ha fatto del dialogo diretto e onesto con i propri follower uno dei motivi del suo successo. Con oltre 140mila follower, Torelli da una parte ha sempre dedicato grande attenzione alle IG Stories in cui mostra i gift che i brand le inviano, così come i prodotti che si compra da sola; dall’altra, complice anche il suo lavoro (si occupa di decluttering e di organizzazioni di armadi) invita a disfarsi di ciò che non è essenziale o che non si indossa da tempo, spesso consigliando di rivendere tali prodotti su piattaforme come Depop. Ed è esattamente quello che ha fatto Torelli, mettendo però in vendita anche diversi item regalatele da alcuni brand. Come ci ha tenuto a sottolineare la diretta interessata, i prodotti in vendita consistevano in semplici gift che i brand, spesso piccoli e in cerca di notorietà, le avevano mandato sperando in una IG Story. E così è stato, ma per pura cortesia e gentilezza di Torelli, senza accordi commerciali o contratti.
Al di là del singolo caso, e delle implicazioni etiche nel gesto di Torelli, prassi praticata da moltissimi altri influencer, intendiamoci, proprio qui sta il nodo della questione, che si dipana su due livelli. Intanto la trasparenza: in quanto follower, ho il diritto di sapere se ciò che mi propone un influencer è frutto di un contratto o se è un prodotto in cui questa figura pubblica crede davvero? E come questo può influenzare le mie abitudini di shopping? D’altra parte, però, la vicenda ha svelato l’ormai assoluta dipendenza da parte dei piccoli e medi brand verso gli influencer, visti come l’unica strategia di marketing possibile e immaginabile, riversando tutta la responsabilità del loro successo su figure esterne.
Per capire meglio come siamo arrivati a questa zona grigia all’interno dell’influencer marketing, nss magazine ha fatto qualche domanda ad Andrea Batilla, grandissimo esperto di moda, ex direttore di IED Moda Milano, fondatore e co-direttore di uno dei primi magazine indipendenti italiani, PIZZA, che da circa 10 anni si occupa di direzione creativa, brand storytelling e comunicazione del prodotto. Batilla è anche autore, il suo ultimo lavoro s’intitola Instant moda. La moda dagli esordi a oggi, come non ve l'ha mai raccontata nessuno, oltre ad essere seguitissimo su Instagram, dove le sue dirette sono diventate irrinunciabili.
Che cosa racconta quest’ultima polemica sul mondo degli influencer?
Negli ultimi giorni si è scatenata una polemica paradossale intorno al fatto che una influencer ha rivenduto capi che le erano stati regalati. Lasciando perdere il caso singolo penso che la questione abbia rivelato una zona grigia nel rapporto tra influencer e follower: la fiducia. Un influencer è innanzitutto uno strumento di marketing, cioè una cassa di risonanza credibile e precisa per vendere prodotti o servizi, qualcuno che riesce a parlare direttamente al cliente finale acquisendone, appunto, la fiducia. Il processo di acquisizione di fiducia in questo caso, diversamente dai brand veri e propri, viene costruito attraverso un allargamento dell’intimità, invitando i follower ad essere presenti in ogni momento, pubblico o privato, della vita di chi sta dall’altra parte del telefono. Questo crea un’intimità artificiale che a volte, come nel caso di cui stiamo parlando, può portare a sentirsi traditi di fronte a certe azioni, per altro del tutto giustificabili.
Molte delle attività che sono state al centro di questa polemica erano Story gratuite, fatte come un favore da parte dell’influencer. Quanto è giusto attaccarle e prenderle come spunto per una discussione su un fenomeno invece molto regolamentato, soprattutto dai social?
Non è giusto. Quando vedo la Clerici che fa la pubblicità dei supermercati MD non mi aspetto che lei ci faccia veramente la spesa. Sono in qualche modo protetto (più o meno) nei confronti dell’artificio narrativo. La Clerici è molto probabile che la spesa la faccia fare dalla propria cameriera da Peck. Il punto è che da un punto di vista cognitivo a volte si perde di vista il confine tra realtà e finzione, rimanendo invischiati in un meccanismo perverso di marketing. L’influencer marketing è in realtà regolamentabile solo fino ad un certo punto perché é molto difficile dividere in maniera chiara ciò che viene fatto in maniera sincera e ciò che è frutto di lavoro. Chi dice di essere sempre sincero mente sapendo di mentire.
In un mondo iper saturo come quello dell’influencer marketing, non dovrebbe essere compito dei brand - soprattutto se piccoli o medi - rivedere la propria strategia di marketing, non basandola interamente sull’esposizione mediatica data da queste figure?
Il problema dei brand medi e piccoli è che non hanno gli strumenti culturali e professionali per capire che strategie intraprendere. Soprattutto in Italia le piccole e medie imprese navigano ad un livello di analfabetismo funzionale sconcertante. Si affidano agli influencer (anche) perché sono di facile comprensione e danno risultati immediati ma temo che per costruire una vera cultura aziendale ci sia bisogno di una cosa che si chiama formazione. E qui si aprono le porte dell’inferno.
In un momento storico in cui l’industria della moda sta ripensando sé stessa, questa polemica ha svelato il lato peggiore dell’influencer marketing, dipingendo gli imprenditori digitali come creators alla mercé dei brand. È arrivato il momento anche per questo settore di reinventarsi?
Io non sarei così pessimista. Vedo una nuova generazione di influencer estremamente intelligente, mediamente più sincera e lontana dagli stereotipi classici della bella senz’anima che va in vacanza in Costa Smeralda. Personalmente amo Giulia Torelli proprio per questo, come Annie Mazzola o come Daniela Collu che hanno identità precisissime, sono persone vere e se fingono lo fanno entro limiti accettabili. Sono personaggi nuovi perché molto più tridimensionali, con meno filtri. Detto ciò, nessuna di loro diventa amica di chi le segue. Anche per loro funziona la regola del distanziamento cognitivo che bisogna tenere con tutti quelli che fanno gli influencer. Me compreso.
La moda può sopravvivere senza gli influencer?
No. Gli influencer parlano direttamente al cliente finale cosa che la moda non può fare perché lavora sull’aspirazionale. Non esistendo praticamente più la stampa cartacea questo tipo di contenuti non possono che passare attraverso i social media e i loro protagonisti.