Cosa significa per Supreme l’acquisizione da parte di VF Corp?
Supreme è morto, lunga vita a Supreme
10 Novembre 2020
Shezi Manezi
Esisteva una volta lo streetwear indipendente. Piccoli brand di culto con un grande seguito che operavano dentro una cultura specifica. Un’epoca in cui l’estetica degli skater non si copiava: o eri uno skater o no; così come l’estetica newyorchese non si copiava: o abitavi nella big city o no. Supreme era in quel momento una leggenda – un brand così inserito in quel colorato milieu multi-culturale che Larry Clark aveva fotografato nel suo film Kids, un brand così vero, reale, connesso al suo mondo. Poi venne l’hype, la cultura della nicchia newyorchese si diluì in un torrente di release, si moltiplicò nei dividendi di una multinazionale e di quello spirito originario rimase pochissimo tranne forse delle ottime performance commerciali. Ai nostalgici è facile rispondere che le cose cambiano, Supreme non poteva rimanere uno store per skater e allo stesso tempo il miglior modello di marketing degli ultimi vent’anni: quella che è nata come controcultura oggi è diventata La cultura. Supreme entra nel primo giorno della sua nuova vita: VF Corp ha comprato il 100% del brand per un valore di 2,1 miliardi di dollari. Ciò che accadrà oltre questo punto rimane un’incognita.
Negli ultimi vent’anni tutti i brand del mondo hanno voluto o copiare Supreme o collaborare con Supreme, provando a replicare o approfittare del suo sistema di release settimanali basate sul principio della scarcity. Fino al 2017 Supreme conservava intatta la sua indipendenza in una moda che, nel suo lato luxury, era dominata da grandi conglomerati e anche sul lato sportswear era controllata dall’oligopolio di Nike, adidas e tutti gli altri storici brand. Ma nell’ottobre 2017 la metà del brand venne comprata per 500 milioni dal The Carlyle Group – un segnale che l'attitudine too cool to care del brand e del founder Jebbia iniziava a mostrare la corda. La valutazione complessiva è quindi 1 miliardo di dollari, una cifra senza senso per un brand che all’epoca aveva appena 10 location fisiche sparse per il mondo e un volume di vendite artificialmente basso. Il valore di Supreme risiede nelle dimensioni immateriali: la coolness di un logo che è diventato icona contemporanea - oltre che oggetto di una disputa legale ai limiti dell'incredibile - e alla generale coolness che avvolge i prodotti, gli store e anche semplicemente il nome Supreme.
Il gruppo Carlyle si è comportato come ci si poteva aspettare: ha comprato il brand, sviluppato il business model e rivenduto dopo appena tre anni ad un valore più che raddoppiato. Un’operazione non banale quando si ha per le mani un business model così anomalo dove non si opera sulle normali variabili di quantità e prezzo. L’interregno di Carlyle è stato l’allenamento per il passaggio sotto VF Corp – un’azienda che è familiare per Supreme ma la cui potenza commerciale si trova più sul livello dei brand da grande magazzino che in quelli di moda o streetwear. VF Corp possiede Vans, The North Face, Napapijri e Timberland: la sua specialità è insomma il mainstream, l'accessibilità è la sua regola. Qualcosa di molto lontano da ciò che Supreme ha rappresentato per i primi 25 anni della sua storia.
Siamo di fronte alla fine dell’era di Supreme? Molti - come accadde nel 2017 dopo l’annuncio di Carlyle - hanno annunciato la morte del brand con toni di apocalisse ma la verità è che il brand, commercialmente parlando, non è mai stato così florido. E VF Corp non sembra troppo interessata a interferire con il dipartimento creativo del brand – ma la vera domanda riguarda il piano commerciale e le collaborazioni: Supreme ha co-firmato collezioni con brand sia grandi che piccoli, ma è dubbio che VF Corp sarà d’accordo nel collaborare con suoi diretti competitor e forse più probabile che spingerà l’acceleratore sui brand del proprio portfolio. Se Supreme possiede ancora una sua influenza, infatti, questa risiede nella sua capacità di elevare gli altri brand con cui collabora a uno stato di pop culture coolness. Inutile dire che già oggi sulla Instagram Story di Supreme è apparsa una prossima collaborazione con Timberland. Ancora più inutile dire che le collaborazioni del brand con Vans e The North Face hanno magari goduto di successo commerciale ma sono lontane anni luce dall’essere le più memorabili e rappresentative del fenomeno culturale che era Supreme.
Tre sono le conseguenze che, nel lungo periodo, potrebbe avere quest’acquisizione. La prima è capire come andrà avanti la politica di store fisici di Supreme: molti rumors sostengono che il brand avesse già da tempo una strategia di aperture in Europa (Milano in primis) che oggi ovviamente sono messe in dubbio dalla pandemia. La seconda è un cambiamento nelle strategie di release e commerciali non solo di Supreme ma della moda più in generale considerato come moltissimi brand abbiano seguito finora le sue orme. La terza conseguenza potrebbe essere l’inizio di un nuovo trend per i grandi conglomerati dell’industria: acquisire marchi di streetwear più o meno di culto per diversificare il proprio portfolio e conquistare nuove fasce di giovani consumatori, trasformando le collaborazioni da eventi culturali a getaway commerciali per migliorare le vendite degli altri brand in loro possesso. Qualunque cosa accada, Supreme da oggi non sarà più la stessa. Per sapere cosa verrà dopo, bisognerà restare a guardare.