La polemica dell’orsacchiotto di Louis Vuitton
Virgil Abloh, Marc Jacobs, Walter Van Beirendonck e le polemiche sull'ultima collezione di LV
03 Settembre 2020
Ieri si è tenuta a Tokyo la nuova sfilata di Louis Vuitton per la stagione SS21 – che è stata la seconda parte del programma di show itineranti con cui il brand francese ha deciso di presentare la sua nuova collezione al mercato asiatico. La sfilata è stata aperta da un modello in completo bianco che portava in mano un orsacchiotto – diretta citazione alla collezione SS05 del brand. L’orsacchiotto possiede un forte valore simbolico, perché rappresenta la difesa di Virgil Abloh dalle accuse di plagio mossegli da Walter Van Beirendonck dopo il primo degli show itineranti di Vuitton di Shanghai i cui capi sembravano prelevati di peso dai lookbook dell’ex-membro degli Antwerp Six. Le accuse di Van Beirendonck sono state pesanti ma non fuori luogo: tanto gli accessori-giocattolo della collezione, quanto gli occhiali da sole asimmetrici e baveri cartooneschi di certi look assomigliano in tutto e per tutto ai precedenti design di Van Beirendonck. La questione ha riaperto l’annosa polemica sui processi creativi di Abloh, sulla sua “regola del 3%” e sulla sua originalità come designer.
Il pubblico si è diviso fra partigiani di Abloh (tra cui Kanye West) che hanno difeso il proprio eroe a spada tratta e alleati di Van Beirendonck, l’ex direttore creativo di Louis Vuitton, Marc Jacobs, ha fatto sentire la propria voce. Sotto l’immagine dell’orsacchiotto pubblicata da Abloh su Instagram ieri, il designer americano ha lasciato un commento che precisava come l’orsetto fosse stato disegnato dall’allora menswear designer del brand, Keith Warren, che si era ispirato al romanzo-cult a tema LGBT Ritorno a Brideshead, in cui un orso di peluche è uno degli elementi centrali della trama. Un commento neutrale ma ambiguo che però ha aggiunto ulteriori elementi in una questione spinosa per Abloh – il cui intero show di ieri ha avuto il sapore di una rivendicazione di autorship e originalità. La polemica poi si è spostata su tutt’altro terreno: cavalcando la wave del politically correct che domina il discorso pubblico odierno, alcuni editori di parte oltre che Virgil stesso hanno fatto dell’accusa di plagio una questione razziale arrivando persino a contro-accusare Van Beirendonck di appropriazione culturale nei confronti della cultura africana e orientale nelle sue precedenti sfilate.
Diventato così la prova scagionante per Abloh, oltre che simbolo di uno scontro fra creativi particolarmente risentito, l’orsacchiotto è apparso in passerella «con un’insistenza martellante che ha un po’ la coda di paglia», per citare le parole di Angelo Flaccavento, che ha commentato lo show sulle pagine de Il Sole 24 Ore. A voler rincarare la dose, Abloh ha accompagnato lo show con un letterale saggio di sette pagine su come le sue ascendenze africane avessero ispirato l’uso di pupazzi, da un manifesto di tre pagine scritto dallo stesso Abloh in risposta agli eventi e anche da un fumetto amatoriale che sottolinea per la terza volta il punto. Inutile dire che, alla vista delle tradizionali show notes (di solito lunghe una o due pagine) trasformate in un pamphlet polemico di 83 pagine, la sensazione che viene sia quella di un’overkill: molte altre volte Abloh è stato accusato di appropriazione creativa, ma questa volta sembra essere stato punto nel vivo. Alle show notes, è stato anche allegato un foglio di domande dal senso vago ma indubbiamente tendenziose che volevano trascinare la questione sul piano culturale-razziale, con quesiti come: «Quali sono gli effetti residui del colonialismo?» oppure «A chi appartiene la mia ascendenza?» e «Cos’è una coincidenza?»
E anche se la moda ha avuto in passato e ha ancora seri e profondi problemi con la complessa questione del neo-colonialismo (espressa attraverso la sopravvivenza di gadget e iconografie ispirate a una cultura i cui presupposti erano necessariamente razzisti), la querelle Abloh vs. Van Beirendonck non ha niente a che vedere con la questione coloniale. In un op-ed di Ruba Abu-Nimah pubblicato di recente su Highsnobiety, il direttore creativo scrive: «In seguito al movimento BLM, i belgi stanno riesaminando la storia coloniale del proprio paese. Van Beirendonck, come artista ed educatore, è responsabile di prendere parte a questo ri-esame». Esiste una chiara fallacia logica in questo ragionamento: il problema del Belgio con la sua vergognosa storia coloniale è un argomento di stato per cui il governo del paese deve ancora scusarsi, ma non è responsabilità personale di Van Beirendonck – il quale in ogni caso ha accusato Abloh di copiare il proprio lavoro, non di appropriarsi di questa o quella cultura.
Race baiting a parte, la narrativa spinta con insistenza dai partigiani di Abloh vorrebbe dipingerlo come una sorta di underdog della moda – un nome nuovo, appena arrivato sulla scena e maltrattato da un’industria di tradizionalisti che gli terrebbe chiuse tutte le porte. Ma la verità è che Abloh è protagonista dei giri più alti della moda dal 2012 da quando creò Pyrex Vision – che, fra le altre cose, finì subito in una controversia per aver usato le classiche flanelle di Ralph Lauren dipingendo la schiena con una grafica rivendendole a 550$ come se fossero un design originale. Un anno dopo quel brand divenne Off-White, che è anche il brand più ricercato del mondo secondo Lyst, e cinque anni dopo Abloh arrivò da Louis Vuitton. Non proprio la storia di underdog avversato dal mondo. Dall’altro lato c’è invece Van Beirendonck, che ha avuto un altrettanto gloriosa carriera, ma il cui brand è sempre rimasto un fenomeno di nicchia, non ha mai subito accuse di plagio e non può essere comparato, in termini di popolarità e successo commerciale, né a Louis Vuitton né a Off-White. Se in questa storia c’è un underdog o una vittima, insomma, non si tratta sicuramente del direttore creativo di due delle maison di moda più ricche e importanti del mondo.