COS è in crisi?
Tre motivi: un debole approccio al digitale, stagnazione creativa e mancanza di diversity
10 Luglio 2020
Quando venne fondato nel 2007, COS avrebbe dovuto essere il campione della scuderia del gruppo H&M, già proprietario di brand come Weekday, Monki, & Other Stories e Arket. La sua collocazione su mercato era intermedia: sulla falsariga del Céline di Phoebe Philo e di Isabel Marant, proponeva abiti eleganti e minimali, dall’estetica molto svedese, dotati di silhouette architettoniche e prodotti con materiali di qualità a prezzi accessibili. Il suo posizionamento era un gradino più in alto di H&M (che era, sia in senso letterale che figurato, molto più cheap) e uno più in basso dei fashion brand veri e propri, possedendo un price point notevolmente inferiore. L’idea di offrire basic elevati a un pubblico più fashion savy funzionò bene all’inizio: nei primi dieci anni di vita, le vendite di COS avevano toccato il miliardo e costituivano il 5% della revenue totale del gruppo H&M. Ma, come si può leggere in un lungo reportage di Business of Fashion, le cose stavano per cambiare.
Se nel 2018, il direttore della Business Division del gruppo, Peter Ekberg, parlava di raddoppiare il volume d’affari del brand entro il 2022, la sua performance ora è scesa del 2%: da 1,06 miliardi di dollari le sue revenues sono scese a 917 milioni. Il Covid-19, poi, arrivato agli inizi del 2020 ha inferto un colpo durissimo al gruppo H&M, che già da anni soffriva di crescita lenta e profitti in diminuzione culminati nell’affaire dei quattro miliardi di dollari in abiti invenduti che giacevano nei suoi magazzini nel 2018, e che dopo la pandemia ha visto le vendite crollare del 50% nel secondo trimestre – perdita tradottasi nella chiusura di numerosi punti vendita inclusi sette store sul territorio italiano, capitolo finale di un declino che non è solo di COS o del gruppo di cui questo fa parte, ma dell’intero sistema del fast fashion. Dopo le dimissioni di tre dei principali executive del brand e una performance in continuo calo, sembra difficile che COS possa diventare il brand numero due del gruppo.
I tre principali motivi della crisi di COS possono essere sintetizzati nella parola “arretratezza”: arretratezza commerciale, estetica e culturale.
I problemi del retail
La radice di tutti i problemi del brand è la maniera in cui esso raggiunge la sua clientela: il mondo intero si muove verso un retail digitalizzato e de-localizzato, ossia la direzione opposta a quella seguita da COS che negli ultimi anni si è invece basato sulla diffusione negli store fisici. L’anno scorso, la conta dei COS store in tutto il mondo toccava le 291 unità – un numero enorme di negozi il cui rifornimento ha portato a una sovrapproduzione di materiale che è stato costantemente smaltito con massicce campagne di scontistica, abbassando il valore del brand. Nel Digital IQ Index di Gartner per il 2019, che classifica la perfomance digitale dei brand, COS è risultato fra gli ultimi della lista tanto negli USA che nel Regno Unito.
A questo ipertrofismo del retail, si accompagnava anche un lento adattamento al mondo dell’e-commerce. Sempre nel 2019, il digitale era responsabile solo del 12% di tutte le vendite globali. Una cifra decisamente bassa in un mercato sempre più dominato dalla crescita del settore e-commerce. Il sistema e-commerce di COS, poi, appare poco sofisticato rispetto a quello di altri grandi retailer. Una delle principali feature a mancare, ad esempio, è l’assenza di integrazione degli inventari dei negozi con quelli dello store fisico – una caratteristica elementare, presente tanto sul sito di Gucci che su quello di Ikea, per dare un’idea della sua diffusione. Nel corso degli ultimi anni, poi, i grandi digital retailer sono diventati sempre più importanti del panorama fashion, come lo YOOX NET-A-PORTER Group o Farfetch, proponendo esperienze sempre più sofisticate e complesse e alzando l'aspettativa della clientela nei confronti dello online shopping experience.
Un'occasione perduta
Quando COS arrivò sul mercato, si trovò a riempire un vuoto. Il re-branding di Zara non era ancora avvenuto, così come non esisteva davvero un’alternativa commerciale di compromesso fra il fast fashion generalista e il lusso. Il concetto di elevated basic portato avanti da COS, i suoi richiami al mondo dell’architettura e dell’arte e il suo price point intermedio gli attirarono le compagnie di tutti quei fashion insiders che desideravano indossare capi minimali e quotidiani che si distinguessero chiaramente dall’anonimato del fast fashion e senza sborsare somme eccessive.
Ma col tempo nuovi competitor sono entrati nel mercato occidentale, il principale dei quali è Uniqlo, e riuscire a posizionarsi in una fascia di prezzo intermedia come ha provato a fare COS è diventato sempre più difficile. Il consumatore che deve acquistare una t-shirt bianca, ad esempio, è più portato a comprarla in una catena di fast fashion spendendo meno o a cercare un luxury brand spendendo di più che cercare direttamente l’opzione intermedia proposta da COS. Il brand si trova insomma nella scomoda posizione di un brand troppo costoso per le masse generaliste ma troppo corrente per la clientela del luxury – il suo punto di forza è diventato una debolezza. Un'occasione perduta se si considera come i brand aveva tutto il potenziale per diventare il benchmark di un Nuovo Lusso, il primo brand di abbigliamento ricco di stile ma pienamente democratico - un risultato che, in verità, per qualunque brand sarebbe difficile da ottenere ma, qualora fosse raggiunto, potrebbe avere un peso epocale.
Sebbene l'estetica del brand sia rimasta molto coerente nel corso degli anni, a essa non è stato accompagnato un sistema di valori di riferimento adeguatamente trasmesso tramite i social media. L'estetica di COS è rimasta invariata e sostanzialmente fine a se stessa - chiusa nel monotono stereotipo dell'essenziale design svedese. Il risultato è stato uno sbiadimento della brand identity. Senza contare come il principale appeal del fast fashion sia la sua rapida imitazione dei trend del lusso, riproponendoli a prezzi democratici. È un modello poco sostenibile ma che funziona e appaga la volubilità della clientela – un modello che COS non ha seguito negli anni, smettendo di essere al passo coi tempi e cadendo nella ripetitività, specialmente in un’epoca in cui un’estetica definita e strutturata è diventata sempre più importante per il cliente che vuole identificarsi nei valori e nella narrativa di un brand.
La questione della diversity
In una fashion industry sempre più caratterizzata da considerazioni etiche e da argomenti come l’inclusivity e la diversity culturale, la strategia di COS per affrontare la questione è apparsa antiquata. Gli impiegati del brand intervistati da Business of Fashion in forma anonima, hanno parlato di una cultura aziendale decisamente poco inclusiva in cui «il casting di talenti diversificati rimane ancora una battaglia». La mancanza di diversity si ritroverebbe anche nel design dei vestiti, colpevoli secondo alcuni di non essere pensati per ogni body type. A questo, si assomma anche la cattiva reputazione del gruppo H&M per quanto riguarda lo sfruttamento dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo – cattiva reputazione iniziata con il crollo del Rana Plaza di Savar, il più grave incidente mortale della storia avvenuto in fabbrica tessile, che produceva abiti per il gruppo.
Queste mancanze sono attribuibili, secondo l’indagine di Business of Fashion, alla monoculturalità del suo management, inadatta a fronteggiare un mercato sempre più multiculturale. La stessa indagine riferisce che sono state numerose, nel corso degli anni, le lamentele degli impiegati a proposito di una corporate culture chiusa, nepotistica e segnata da ambigui episodi di bullismo e abuso di potere prontamente minimizzati o messi a tacere dal brand.
Cosa sta facendo COS per cambiare?
Alla fine dello scorso gennaio, il ruolo di Managing Director del brand è passato a Lea Rytz Goldman che è succeduta a Marie Honda, rimasta nella sua posizione per gli ultimi otto anni. Il ruolo precedentemente ricoperto da Goldman era la gestione di Arket, uno dei brand più giovani nel portafoglio del gruppo H&M oltre che uno dei più promettenti.
Goldman ha già cominciato ad apportare dei cambiamenti salutari per l’azienda, come ad esempio un workshop interno per ridefinire la brand identity, potenziando l’e-commerce e istituendo un forum aperto in cui gli impiegati possano esporre i problemi da loro incontrati all’interno dell’ambiente di lavoro.
Rimane comunque ancora troppo presto per sapere se il cambio di leadership si tradurrà in un’effettivo miglioramento della performance del brand – ma COS non è comunque un'azienda moribonda: le sue performance, sebbene poco soddisfacenti rispetto al passato, rimangono forti; il brand possiede un’identità forte e potenziale commerciale oltre che l’appoggio finanziario e infrastrutturale di uno dei conglomerati industriali più estesi al mondo. Prima di tutto, Goldman intende creare una nuova cultura aziendale basata sulla fiducia e orientata verso un cambiamento in positivo:
«Come nuova direttrice, riconosco che la creazione di un ambiente più aperto e di una cultura inclusiva richiede tempo. E io, insieme agli altri dirigenti, devo instaurare un clima di fiducia che permetta a chiunque di esprimersi liberamente».