Quanto durano i direttori creativi?
5 anni sarebbe il periodo di tempo di più successo per un designer alla guida di un brand di moda
25 Giugno 2020
C'è un'espressione che molto più di altre negli ultimi anni è andata a delineare i continui cambiamenti ai vertici delle Maison di moda. Il cosiddetto 'gioco delle sedie' è diventato la definizione più calzante per descrivere l’evoluzione della direzione creativa negli ultimi anni, rispecchiando una prassi ormai consolidata all'interno del sistema moda, abituato a viaggiare a ritmi velocissimi, facendo affidamento su cicli altrettanto brevi. A questo proposito colpisce molto un report pubblicato dalla società di analisi Bernstein, riportato da Quartz, che ha analizzato il rendimento, i prezzi azionari e il valore d'impresa di diversi brand di moda in relazione alle vendite. Quello che ha individuato Bernstein è un lasso di tempo pari a 5 anni dall'insediamento di un nuovo direttore creativo in cui si nota un sensibile aumento delle vendite, e dopo un periodo di assestamento, l'inizio di un lento declino. Cinque anni sembrerebbe essere quindi il tempo massimo in cui individuare ascesa e caduta di una nuova direzione creativa.
Prima di continuare, è bene sottolineare che il report di Bernstein ha preso in esame il caso di 18 diversi direttori creativi, senza tenere conto del rapporto tra direttori creativi e fonte di guadagno; ciononostante, il report restituisce un ritratto fedele dell'industria di oggi, divenuta ormai schiava del concetto di novità. Mai come negli ultimi anni, l'industria moda nella sua interezza ha ripreso metodi e prassi tipiche del mondo streetwear, primo fra tutti il concetto di hype costruendo il proprio fascino e la propria forza sulla costante ricerca della next big thing. In ultima analisi, è la novità ad alimentare le vendite.
La ricerca della novità
A quell'anticipazione, a quell'attesa a tratti isterica, contribuisce un fattore importante da tenere in considerazione. Niente attira più l’attenzione, crea più aspettativa di un designer chiamato a risollevare le sorti di un marchio moribondo o dalla storia lunghissima, ancor di più se quel designer a quel mondo non appartiene fino in fondo. È andato così nei mesi precedenti la prima sfilata di Riccardo Tisci da Burberry, un creativo con una formazione e un’esperienza passata nettamente distante dall’heritage e dalla tradizione inglese di un marchio come Burberry. Ma ancor di più è stato questo il caso di Louis Vuitton e Virgil Abloh. Dimenticandoci per un attimo della portata storica di questa nomina, e del buzz che la prima sfilata arcobaleno aveva generato, c'è un dato molto interessante: nel gennaio del 2019, nel pop-up del brand francese a Tokyo, nelle prime 48 ore il marchio aveva registrato più vendite di quelle della collaborazione con Supreme, a testimonianza di quanto Abloh avesse creato interesse verso il marchio.
Il caso più esemplare della parabola temporale tracciata da Bernstein è sicuramente Gucci, sotto la direzione creativa di Alessandro Michele. Con l’arrivo del designer romano Gucci ha conosciuto una crescita esponenziale, diventando il brand più importante del portafoglio di Kering. Approdato alla guida dello storico nome fiorentino quasi da perfetto sconosciuto, Michele ha avuto il merito di aver creato fin dalla sua prima collezione un'estetica nuova, originale, del tutto diversa da quella a cui erano abituati i consumatori di Gucci, trovando in questo la chiave del suo successo. C’è poi un altro elemento da non dimenticare. Le grandi e storiche maison del lusso non fanno profitto sulla vendita dei loro vestiti, in particolare quelli che si vedono in passerella, quanto invece sono totalmente dipendenti dalla vendita di accessori, item di pelletteria, profumi e cosmetici, i prodotti più accessibili ad un pubblico più vasto rispetto a creazioni dai prezzi esclusivi.
Il club dei tre anni
È per questo che nonostante un andamento altalenante, successi alterni di collezioni, critiche più o meno positive, i big brands che possono fare affidamento sui dei prodotti hero, che sia una borsa best-seller o un profumo che è diventato un classico, risentiranno sempre meno dei cambiamenti al vertice. Questi staple products funzionano come una sorta da cuscinetto, assorbendo urti e crolli, e di fatto costituendo una base solida su cui il brand può osare e sperimentare senza rischiare troppo. In questo senso, la guida di Bottega Veneta sotto Daniel Lee è stata esemplare di come un brand possa ritrovare una sua forza grazie a una serie di prodotti che non sono legati al ready-to-wear, prodotti iconici che sono diventati elementi cardine dei tre anni del designer britannico alla corte di Bottega.
La notizia della separazione tra Lee e il brand legato al gruppo Kering rientra nel gruppo dei tre anni, quell'insieme di designer più o meno rilevanti che hanno salutato ben prima della già citata parabola dei cinque anni. Fanno parte di questo gruppo eccellenza come Raf Simons, che ha lasciato Dior nell'ottobre del 2015, Hedi Slimane, che ha salutato Saint Laurent ad aprile 2016, e Stefano Pilati che a febbraio 2016 aveva detto addio a Ermenegildo Zegna. Ritmi di lavoro spesso pesanti e divergenze creative sono spesso tra le cause maggiori di questi addii anticipati, perfetto esempio di un fashion system fin troppo iperattivo e spesso impaziente nella ricerca dei risultati.