Non tutti i brand vogliono cambiare il fashion system
Chanel ha appena annunciato che non intende rinunciare ai suoi sei show annuali
11 Giugno 2020
La crisi della fashion industry innescata dalla pandemia di coronavirus è stata per numerosi brand e designer un’occasione per ripensare le consuetudini più radicate del settore. Una delle conseguenze è stata la decadenza delle pre-collezioni – sfilate “secondarie” di solito ambientate in luoghi esotici additate da molti come la principale causa della sovrapproduzione nella moda. Tra le varie proposte di cambiamento, critici, buyer e brand sembrano d'accordo su una cosa: il sistema delle fashion week annuali viaggia su ritmi esagerati e insostenibili e, dunque, va riformato. Due dei principali brand di Kering, Gucci e Saint Laurent, hanno già iniziato a implementare una modifica nel proprio programma ma il loro punto di vista non è universalmente condiviso. Fra i brand che resistono al cambiamento Chanel è stato il primo, ieri, a dichiarare il proprio attaccamento alla tradizione. Il presidente del brand, Bruno Pavlovsky, ha detto a The Business of Fashion che Chanel manterrà tutti e sei gli show annuali: due prêt-à-porter, due haute couture e la pre-collezione Cruise o Croisère e il Métiers d’Art dedicato all’atelier artigianale. Queste le parole di Pavlosky nel descrivere la decisione:
«Non so se il numero giusto sia due o sei. Dipende dal brand. Noi abbiamo fatto molti progressi nel calcolo della nostra impronta ambientale, facciamo sempre progressi nel nostro approccio. E crediamo sia importante fare questi show. Abbiamo bisogno della libertà creativa per ciascuno di quei momenti. [...] Con questo ritmo, siamo in grado di portare nuovi prodotti alle boutique ogni due mesi, e ci sentiamo a nostro agio con questo sistema».
Quando si parla delle sfilate Cruise e, in generale, di tutte le pre-collezioni come di esose stravaganze che i brand potrebbero risparmiare a se stessi e al pubblico, è difficile che non venga alla mente lo show della collezione Cruise 2015 di Chanel a Dubai. Un opulento spettacolo che richiese la costruzione di un’isola artificiale a largo della costa araba, con un sistema architettonico costatato all’epoca 1,7€ milioni e demolito il giorno dopo lo show. Questo fu solo uno dei titanici show voluti da Karl Lagerfeld durante il suo regno da Chanel, altre location che scelse furono i giardini di Versailles, il Lido di Venezia, Shangai, Saint-Tropez e Cap d'Antibes. Non ci si poteva aspettare di meno dall’uomo che aveva inventato il concetto di sfilata Cruise intesa come “sfilata in luogo esotico”. Come raccontava Pavlovsky, al The Indipendent nel 2014:
«Io e Lagerfeld decidemmo quindici anni fa di rendere la ‘Cruise’ un momento dedicato al lancio di collezioni speciali, presentandole alla stampa con un enorme show».
Le ragioni addotte da Pavlovsky per il mantenimento dei sei show annuali riguardano tutte i concetti di brand value e brand identity oltre che «la relazione privilegiata tra il brand e le persone che lo circondano». Un punto di vista che si potrebbe definire conservatore e che anche brand di LVMH, fra cui Louis Vuitton, Dior e Céline, hanno implicitamente assunto, mantenendo un silenzio pressoché totale nei confronti di quell’ondata indipendentista culminata con l’annuncio di Gucci. Fra mega-brand che decidono arbitrariamente quando sfilare e brand tradizionalisti ancora riverenti nei confronti di quell’istituzione che è la fashion week, potrebbe sorgere il rischio di una settimana della moda a due o tre velocità, con brand più piccoli costretti ad aderire al programma e i titani dell’industria, indipendenti dalle regolari cadenze del sistema, che organizzano i propri show senza una vera coordinazione reciproca. Un modello in realtà già seguito da Dolce & Gabbana, brand uscito dal programma del CNMI nel ’98 e mantenutosi indipendente fino a oggi, fra l’altro con show di Alta Sartoria e Alta Moda ambientati in set spettacolari proprio come Chanel.
Questa linea di resistenza interna al sistema moda ha di recente trovato altre voci, con la mancata partecipazione di Burberry, Martine Rose, A-COLD-WALL* e Craig Green all’edizione digitale della London Fashion Week. Dal punto di vista dei brand, è una questione che riguarda di certo il proprio prestigio: più un brand è grande e istituzionalizzato meno esso dovrà piegarsi a volontà esterne. Essendo il proprio status radicato nella tradizione, dunque, i brand stessi non vedono perché cambiarla. La radicale modifica del calendario della moda aiuta in realtà soprattutto i brand più piccoli, laddove titani commerciali come Chanel, Louis Vuitton o Dior non hanno motivo di modificare la propria natura, specialmente se aderire al cambiamento significa porsi sullo stesso piano di marchi molto più giovani e dalla storia meno lunga e venerabile.