Perché i messaggi di supporto dei brand sono tutti uguali?
C'entra Nike, il fenomeno del "blanding" e l'estetica contemporanea di Instagram
03 Giugno 2020
Da una settimana a questa parte, l’omicidio di George Floyd a Minneapolis per mano di un poliziotto ha polarizzato il dibattito culturale innescando un fortissimo movimento di protesta anti-razzista negli Stati Uniti.
Il movimento ha guadagnato supporto da tutto il mondo, specialmente tramite Instagram, il cui feed nella giornata di ieri è stato dominato da immagini nere in solidarietà alle proteste per il #blackouttuesday.
I brand di moda - grandi e piccoli - sono stati tra i primi a condividere messaggi anti-razzisti che hanno seguito quasi completamente il medesimo template usato da Nike per la campagna messaggio For once, don’t do it, che consiste in una scritta bianca su un fondo nero o vice versa.
Nel giro di quarantotto ore, una reiterazione, imitazione o semplice remix di quel template è apparso ovunque, con l’effetto di creare una sequenza di messaggi del tutto identici, spesso brandizzati, e sostanzialmente indistinguibili fra di loro.
Posto che ogni messaggio contro il razzismo è prezioso, colpisce il fatto che i brand abbiano scelto una strategia di comunicativa così basica ed omogenea, probabilmente una scelta sicura che sembra più un dovere di comunicazione che un messaggio di supporto al movimento.
Questa completa omologazione estetica ricorda da vicino il fenomeno del “blanding”: quel momento nel 2018 in cui numerosi brand di lusso cambiarono logo adottando un anonimo font sans-serif che pareva identico per tutti. Ecco come The Fashion Law raccontò il fenomeno all’epoca:
«L’uniformità del design è parte di un più ampio atteggiamento della moda moderna che diventa sempre più formulare, aziendale e regolato a tavolino. Dato che un buon numero di fashion brand sono posseduti da aziende quotate in borsa, […] molto di ciò che producono, dagli abiti al branding, è il prodotto di trend forecasting e metriche accurate».
La necessità di adeguarsi alle politiche d’immagine aziendali, mescolata al generale conformismo dettato dall’estetica di Instagram ha prodotto questo risultato: decine di manifesti che sembrano generati automaticamente da un computer, pronunciati per battere il ferro dell’indignazione social mentre è caldo da una miriade di brand diversi, fra l’altro con un lessico limitato e convenzionale oltre che ostentando una generica solidarietà che non trova un autentico riscontro nelle azioni dei brand stessi o alla moda in generale e che, nel caso migliore, si risolve in una donazione di denaro altamente pubblicizzata. Addirittura Bottega Veneta ha postato nelle sue Instagram Stories uno statement generale di Kering che parlava a nome di tutti quanti i suoi brand – qualcosa di ancora più impersonale di un’imitazione: un copia-e-incolla.
Si tratta in definitiva di contenuti mirati a ottenere una consumer response tramite la solennità dello statement invece che con una scarpa o il volto di una celebrity. Dopo tutto, si potrebbe arguire, non è compito di un’azienda che produce abiti di lusso occuparsi di diritti civili – tanto più che l’attivismo non è un hashtag, non si può fare seduti nel proprio salotto né ridurre a una foto nera sul proprio feed di Instagram. Questa valanga di messaggi ispirazionali anti-razzismo tutti identici fra loro è la prova di come alla moda piaccia arrogarsi il ruolo di voce della cultura progressive anche se la sua natura di industria dalle logiche strettamente commerciali rimane sostanzialmente invariata. La docente universitarie ed ex-cultural inclusivity consultant di Gucci, Kim Jenkins, ha spiegato di recente a Vogue:
«Un post che riconosce ciò che sta accadendo e contiene una dichiarazione intelligente può avere peso. Si connette con i clienti. […] Ma qual è la tua promessa e dov’è il tuo impegno di leader a supporto della comunità? E cosa ci stai promettendo in termini di cambiamento dentro la tua organizzazione? È questo che chiederà il pubblico e non si accontenterà di parole vuote».