Gli eventi digitali possono davvero sostituire quelli fisici?
Quando cambia il medium, deve cambiare anche l'approccio
05 Maggio 2020
Da quando la minaccia Covid-19 ha sconvolto il suo calendario, la moda si è ritirata nello spazio digitale, dove proprio in queste settimane sta tentando di adattarsi con una serie di iniziative che vorrebbero continuare a perpetuare le tradizioni precedenti inserendole nel contesto di un nuovo medium. Di recente la sfilata digitale di Carine Roitfeld ha voluto proporsi, oltre che come evento benefico, come esempio di surrogato digitale al fashion show vero e proprio mentre Anna Wintour ha organizzato il livestream A Moment with the Met per celebrare la ricorrenza (quest’anno mancata) del Met Gala. I due eventi sono stati profondamente diversi: il primo aveva il piglio della sfilata-evento, con il coinvolgimento di figure di rilievo dell’industria come modelli e designer; il secondo ha invece unito performance musicale e documentario. Entrambe le iniziative, per quanto ben organizzate, hanno sottolineato come sostituire gli eventi fisici non è cosa facile rendendo chiaro che, in termini di rivoluzione digitale, la moda dovrà ripensare l’impostazione di numerosi formati tradizionali.
Un tratto distintivo di tutti questi eventi è stato il cogliere le grandi personalità della moda all’interno delle loro abitazioni. Questo cambio di prospettiva non incide troppo sui contenuti culturali, documentaristici o musicali – che anzi diventano più democratici e alla portata di tutti. La serie di video e livestream pubblicati da Vogue per celebrare il lunedì del Met Gala non ha nulla di diverso da un qualunque documentario o programma televisivo. Si avverte un cambiamento maggiore però quando il digitale prova a soppiantare la sfilata: una cosa è vedere Anna Wintour nel proprio studio raccontare la storia del Met Gala, un’altra è vedere modelli e modelle nella cucina di casa propria camminare su una passerella immaginaria - uno spettacolo che fa comprendere quanto il fascino della moda sia legato al suo escapismo, alla sua capacità di creare esperienze. Come Vaness Friedman ha scritto sul New York Times:
“Il risultato è stato... affascinante. Ma in fin dei conti riguardava più la gioia voyueristica di osservare le celebrità nella propria abitazione che il piacere e il potenziale degli abiti. […] Il format della sfilata è durato per decenni perché funziona – nella vita reale. […] Ora abbiamo modo di trovare alternative differenti. Ma ciò che serve non è simulare quegli eventi, ma ripensarli completamente”.
Modelli e abiti funzionano bene nelle sfilate ma, separati dal loro contesto, tolti dall’insieme e isolati nelle proprie abitazioni tornano ad essere individui quotidiani, più attraenti della media, ma non degni di attenzioni maggiori di quelle che diamo a chiunque altro nel nostro feed di Instagram. Molti insider dell’industria, Armani in primis, hanno additato le sfilate come inutili dissipazioni di denaro ed energie e hanno ragione, nella misura in cui lo spettacolo della sfilata supera la qualità dei vestiti in passerella. Ma la sfilata è anche un rituale il cui merito è rendere tangibile e ripetibile un tipo di esperienza estetica che non si limita all’acquisto degli abiti, ma riguarda il valore culturale e creativo della moda. Il movimento da approccio fisico ad approccio digitale, dunque, dovrebbe causare uno shift di formato che lasci al mondo fisico la sfilata tradizionale e trovi maniere innovative ed efficaci di celebrare quel valore culturale e creativo sfruttando con inventiva e capacità le caratteristiche peculiari del nuovo medium.