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Quanto sta costando il Coronavirus all'industria della moda

Dal fast fashion al luxury, tutti i settori iniziano a fare i conti con perdite e cali di vendite

Quanto sta costando il Coronavirus all'industria della moda  Dal fast fashion al luxury, tutti i settori iniziano a fare i conti con perdite e cali di vendite

La pandemia da Coronavirus ha cristallizzato la nostra quotidianità in una quarantena casalinga di cui ancora non si intravede una data di fine. Tralasciano il fattore umano di questa epidemia (che si sta portando via migliaia di vite), la diffusione del COVID-19 avrà inevitabilmente conseguenze devastanti sull’economia globale, un impatto che ancora non è stato compreso e analizzato del tutto. 

Quel che è certo per il momento è che con migliaia di negozi chiusi, eventi cancellati, collezioni rinviate, l’industria della moda sta iniziando a fare i conti con l’effetto del COVID-19 sui propri fatturati. L'andamento degli affari e delle vendite riflette in modo puntuale il diffondersi e l'evoluzione dello stesso virus, partito dalla Cina e arrivato presto in tutta Europa, Stati Uniti e resto del mondo. Se all'inizio i cali e le perdite maggiori si verificavano in Cina, è proprio da questo territorio che i brand stanno già cominciando lentamente a ripartire, prendendo una boccata d'aria fresca dal mercato europeo e statunitense che sortirà gli effetti peggiori, vivendo di fatto quello che la Cina ha passato due mesi fa. 

Mentre quasi tutti i gruppi del lusso, compresi LVMH, Kering e Prada, ma anche colossi del fast fashion come H&M, convertono progressivamente le proprie produzione per fornire mascherine e materiali sanitari a ospedali e popolazione, ci si concentra su un nuovo modello di vendita - per forza di cose online - e si incomincia a fare la conta dei danni. 

 

FAST FASHION 

A risentire in modo netto gli effetti del COVID-19, complice una situazione finanziaria già parecchio complicata, è il gruppo H&M. La catena di fast fashion svedese è stata costretta a chiudere 334 dei suoi 518 negozi su territorio cinese, facendo così i conti con un calo delle vendite pari al -24% nel primo trimestre dell’anno. E mentre l’emergenza lentamente rientra in Cina, dando così ad H&M la possibilità di riaprire un numero seppur esiguo di store, H&M vede moltissimi dei suoi store europei chiudere temporaneamente le serrande in Italia, Francia, Spagna, Belgio, Austria, Grecia e moltissimi altri paesi. Sarà quindi inevitabile un calo pari se non maggiore a quello verificatosi in Cina anche su territorio europeo. 

Quella che sta affrontando Inditex sembra una situazione meno drammatica, nonostante il gruppo che possiede tra gli altri ZaraBershka, ma anche Massimo Dutti, abbia dovuto chiudere 3785 store in oltre 39 mercati diversi. Questo mentre in Cina i negozi iniziano lentamente a riaprire, a testimonianza di una situazione che viaggia in direzione opposta rispetto al resto del mondo. Sebbene nel 2019 Inditex abbia registrato un aumento delle vendite del +8%, per un giro di affari pari a €28.3 miliardi di euro, i nuovi dati del colosso spagnolo riportano che dall'inizio di febbraio al 16 marzo, le vendite online e in store sono calate di circa il 5%, mentre le vendite generali dall’1 al 16 marzo hanno subito un declino totale del -24%. Ciononostante il gruppo rassicura che le vendite online proseguono normalmente, così come la catena di produzione nelle fabbriche. 

Oltre alle perdite in termini economici, quello che per le catene di fast fashion si prospetta all’orizzonte è un problema ben più grande, quello dei beni e della merce invenduta, questione delicatissima e molto discussa, che ha fatto interrogare molti sull'impatto ambientale dei brand fast fashion. H&M, ad esempio, era stato accusato di aver bruciato all'incirca 12 tonnellate di indumenti, ancora utilizzabili e vendibili, ogni anno negli ultimi anni. Distruggere i prodotti inutilizzati rappresenta per molti una scelta utile per risolvere questioni legate ai dazi e alle protezioni doganali. Basti pensare alla politica degli Stati Uniti che permette ai marchi che importano beni all’interno dei loro confini di riavere indietro il 99% dei dazi, imposte o tasse pagate sulla merce, se la merce non viene utilizzata, esportata o distrutta sotto la supervisione doganale. Resta da capire come si muoveranno in questo senso i gruppi Inditex e H&M per non ritrovarsi magazzini e depositi pieni di merce invenduta. 

 

LUXURY

Come scrive WWD, il mondo del lusso per definizione è il mondo del desiderio, non del bisogno, ed è quindi naturale che anch’esso, se non in misura ancora maggiore, verrà colpito dalla crisi causata dalla diffusione del COVID-19. Le stime parlano di una perdita che ammonterebbe tra i $32 e i $42 miliardi di dollari per il settore del lusso, penalizzato dalla chiusura di store e grandi centri commerciali in particolare su territorio cinese. Il 35% delle vendite del lusso inoltre è assicurato ogni anno da consumatori di nazionalità cinese: vale la pena sottolineare che la stragrande maggioranza di questi acquisti avviene all'estero, non su territorio cinese, da parte di cittadini cinesi in vacanza, quel tourist shopping che almeno in questi primi mesi del 2020 verrà a mancare per ovvie ragioni. Un asset strategico del luxury shopping sono poi gli aeroporti, che grazie soprattutto a politiche di duty-free e agevolazioni fiscali, hanno dato vita ad un giro di affari che lo scorso anno si è stabilizzato intorno ai $44 miliardi di dollari. Non è un caso che i maggiori agglomerati del lusso si stiano concentrando sempre di più su questo tipo di vendita, che per Kering ad esempio è un canale di vendita in fortissima crescita. Con la diffusione del virus e la conseguente chiusura di frontiere ed aeroporti, lo shopping in questi luoghi subirà un calo almeno del 70% quest'anno. 

Il caso più drammatico è quello che riguarda Burberry, il cui 44% delle vendite avviene grazie a cittadini di nazionalità cinese. Nelle ultime settimane le vendite di Burberry sono scese del 40/50%, e secondo le previsioni degli esperti caleranno ancora, del 70/80% entro la fine del mese. In generale, le vendite in store sono calate del 30% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il 60% degli store monomarca Burberry è inoltre chiuso tra Europa, Medio Oriente, India e Africa, mentre questa percentuale sale fino all’85% quando si tratta degli Stati Uniti. 

Il gruppo Kering, l'agglomerato del lusso che possiede tra gli altri Gucci, Saint Laurent, Balenciaga e Bottega Veneta,  stima un calo del -14% nelle vendite nel primo trimestre del 2020. Il gruppo che lo scorso hanno ha fatturato $17 miliardi di dollari ha dichiarato che si aspetta perdite simili anche nel secondo trimestre dell'anno, soprattutto perché ancora non si intravede una soluzione a questa pandemia a livello globale, anche se si registrano segnali incoraggianti e un timido ritorno agli acquisti in Cina. 

Sebbene gli acquisti siano cresciuti del 2,7% in modo costante per tutto il 2019, anche il gruppo Prada si aspetta un rallentamento in questi primi mesi del 2020, senza fornire però ulteriori indicazioni di stima per i prossimi mesi. 

 

SPORTSWEAR

Discorso a parte meritano i brand di sportswear, in particolare i due giganti Nike e adidas, che soprattutto nel caso dello Swoosh riflettono perfettamente l’evoluzione nelle abitudini dello shopping dei consumatori in questo momento di quarantena. Ma non solo: oltre a rappresentare un mercato per loro fondamentale e strategico, la Cina è per entrambi il principale paese di produzione, ed è quindi inevitabile che la temporanea chiusura delle fabbriche cinesi abbia sortito effetti ben tangibili su tutta la produzione dei brand. 

Con gli store chiusi in tutta Europa e negli Stati Uniti, l’interruzione delle catene di distribuzione, la sospensione della stagione NBA e il rinvio delle Olimpiadi di Tokyo 2020, Nike potrebbe perdere fino a 3 miliardi e mezzo di dollari. Si parla di un calo delle vendite globali del 21% e del 16% nel valore delle azioni. A contrapporsi a questi numeri ci sono però i dati degli acquisti online, aumentati di oltre il 30% sul territorio cinese. Più in generale le vendite online sono aumentate del 36% nel trimestre che si è concluso lo scorso 29 febbraio. Nike ha dichiarato che l’80% dei suoi store in Cina è aperto e operativo e che quindi da quella regione si aspetta vendite in linea con le stime annuali.

Dopo aver chiuso il 2019 al suo massimo storico, in seguito alla diffusione del COVID-19, adidas si è trovata costretta ad annullare tutte le spedizioni all'ingrosso e a dichiarare di aver pianificato di eliminare l'inventario in eccesso per il resto del 2020. Mentre la maggior parte delle fabbriche in Cina sono tornate a funzionare, la sua catena di distribuzione ha subìto interruzioni, senza influire particolarmente sul bilancio generale della società. adidas, così come PUMA, realizza quasi un terzo delle sue vendite in Asia, e nonostante molte delle sue fabbriche siano tornate operative e la produzione stia lentamente ripartendo, PUMA ha ammesso che non si aspettava un calo così drastico delle vendite nei mercati di Cina, Singapore, Giappone e Corea del Sud. 

Al di là di stime stagionali e profitti trimestrali, resta da capire se questo periodo di quarantena cambierà il modo di fare shopping dei consumatori anche quando l'acquisto online non sarà più l'unica opzione possibile. Negli Stati Uniti gli acquisti online ad esempio rappresentano un terzo di tutti gli acquisti di abbigliamento, e il 12% degli acquisti luxury avviene online. Ci sono brand che in questo momento non solo hanno chiuso tutti gli store fisici, ma anche quelli online, come nel caso di Patagonia.
Visti i risultati dello shopping online da quarantena - basti pensare al caso Nike - è chiaro che i brand, di qualsiasi livello e settore, continueranno a investire sulla digitalizzazione degli acquisti, non solo per raggiungere un ulteriore aumento delle vendite, ma anche per andare a creare una sorta di fondo, di assicurazione, nel caso in cui una situazione del genere dovesse verificarsi nuovamente. 

Il triste titolo di vincitore in questa situazione drammatica lo porterà a casa Amazon, probabilmente la piattaforma di e-commerce che più sta guadagnando in questi tempi di quarantena, tanto da doversi mettere alla ricerca di 10mila nuovi dipendenti, visti il numero di ordini e il ritmo con cui arrivano. Seguono a stretto giro, con fatturati in netta crescita, le piattaforme di streaming come Netflix, Amazon Prime Video e Disney+, app di video conferencing come Zoom e Skype e i corrieri e i vari servizi di delivery.