Kicks, il primo film streetwear dell’era moderna
“They aren’t just shoes”
24 Marzo 2020
Nel 2015 Stephon Marbury, una delle più iconiche leggende NBA di Coney Island, annunciando il ritorno in commercio delle sue sneaker, le Starbury, a 15 dollari criticò aspramente la strategia esclusiva utilizzata dal Jordan brand:
«Jordan sta derubando i ghetti da sempre. I ragazzini muoiono per le sue scarpe e l’unica cosa che quest’uomo sa dire è che non gli importa. Questo tempo deve cambiare!», scrisse lui stesso in un tweet poi diventato virale.
Solo qualche mese più tardi, GQ pubblicò un episodio della serie documentaristica “Sneakerheads” dal titolo “1,200 People Die Over Sneakers Each Year”. Un numero certamente scioccante, basato su stime fatte sui bollettini di ABC News, che ciclicamente riportava la notizia di ragazzi rimasti uccisi per litigi derivanti dalle sneaker, delle Air Jordan in particolare. Non è era un caso che la maggior parte di quei ragazzi fosse rappresentata da giovani afroamericani. Quelli che vengono definiti ghetti - le zone urbane più povere della città, che decenni di cattiva gestione urbanistica hanno trasformato in agglomerati di minoranze private dei servizi più basici - erano i luoghi dove avvengono la maggior parte delle liti e degli omicidi legati ai furti di sneaker.
Nasce da queste premesse Kicks, il primo film di Justin Tipping, giovane regista Filippino-Americano che negli anni ha poi lavorato con alcuni dei migliori artisti afroamericani in circolazione: da Lena Waithe in The Chi a Justin Simiens in Dear White People. Kicks è uscito negli USA nel 2016, ma solo qualche settimana fa è arrivato su Netflix, venendo distribuito (e doppiato) nel resto del mondo. La storia ruota intorno all’avventura di Brandon, un ragazzino dalla fisicità non troppo sviluppata, che vive in un ghetto della Bay Area (nei dintorni di Oakland), e che va alla riconquista delle sue Jordan 1 Bred, rubategli da un piccolo criminale della zona, Flacko. Il percorso di Brandon lo porterà a unirsi a suo zio, un ex-detenuto interpretato da Mahershala Ali, e a mettersi in situazioni ben più grandi e pericolose di lui. L’idea di Kicks, ha raccontato una volta Tipping al The Guardian, è nata dalla sua esperienza personale: le sue prime scarpe, delle Nike Air Presto, gli erano state rubate da un gruppo di ragazzini del suo quartiere:
«Il giorno dopo quando sono andato a scuola ogni ragazzo, anche se non mi conosceva, veniva da me e mi diceva: "Ti hanno fottuto alla grande"».
Kicks è un film abbastanza duro da digerire, dove i contorni morali dei personaggi non sono mai definiti, la giustizia non esiste, così come non esistono buoni o cattivi. La rappresentazione della realtà del ghetto americano però è molto fedele e istruttiva, così come la sua rappresentazione della mascolinità nera e delle difficoltà di emersione nel ghetto. Più d’ogni altra cosa però, Kicks è uno dei migliori film di streetwear incentrati sulla sneaker culture, nonché l’unico (fino ad oggi) capace di raccontarne i lati più oscuri. In Kicks, le sneaker rappresentano da un lato un elemento di elevazione nella scala sociale, dall’altra un pericoloso bersaglio da cucirsi addosso. Se ci sono stati tanti film nel passato che hanno influenzato la street e sneaker culture moderna, nessuno era riuscito a renderla esplicita protagonista della storia.
In un saggio del 2017 scritto per la City University of New York (CUNY), Shaquille-Omari Bekoe scrive che «la sneaker culture ha dato libertà estetica agli uomini afroamericani ma creando restrizioni», spiegando come le sneaker - storicamente il principale veicolo attraverso cui la comunità afroamericana ha avuto accesso al mondo della moda - siano per certi versi stati un’ulteriore motivo di ghettizzazione da parte dei media, che hanno spesso esasperato i toni della narrativa sociale circa le storie di violenza ad esse legate. Anche Kicks racconta di quanto pericolosa potesse essere in alcune zone d’America la retorica del “Be Like Mike” attorno alla quale Michael Jordan e Nike hanno fondato il mito del Jordan Brand. Scrive Scott Warren McVittie:
«In una società consumistica, identità e rapporti sociali sono largamente dipendenti dall'acquisto e dall'ostentazione di beni di consumo. I giovani afroamericani erano così smaniosi di "essere come Mike" che erano disposti a uccidersi a vicenda per qualcosa di apparentemente insignificante come un paio di sneaker».
Non è difficile trovare negli archivi dei media americani notizie che riportino direttamente o indirettamente morti legate al mondo delle sneakers. In un articolo del Washington Post del 2018, viene raccontata la morte di James Anthony Smith, sparato alle spalle mentre cercava di scappare da chi voleva sottrargli le sue Jordan:
«"Queste scarpe sono importanti" ha detto il procuratore distrettuale Ella Gladman a Okun durante il suo discorso iniziale mentre riportava i dettagli della sparatoria menzionati dalla sua teste. "Queste scarpe sono la ragione per cui James è stato ucciso"».
Anche uno dei più famosi numeri di Sports Illustrated, uscito il 14 maggio del 1990 e scritto dal leggendario Rick Talander, “Your Sneaker of Your Life”, poneva l’accento su quella che veniva definita “peer pressure”: «Tu fai ciò che la TV di dice di fare e ciò che fanno tutti quelli che percepisci come tuoi pari», raccontando della morte del quindicenne Michael Eugene Thomas, strangolato per le sue Jordan. Il pezzo di Sports Illustrated tradisce tutti i segni dei tempi, di quando la sneaker culture e lo streetwear erano ancora delle sottoculture capaci di arrivare sulle prime pagine dei giornali solo ed esclusivamente sotto una luce negativa, secondo una retorica per cui le sneaker venivano definite “l’abbigliamento delle gang e dei gangster”.
Il 2020 racconta una storia completamente diversa, in cui le sneaker sono diventate un mercato miliardario e lo streetwear si è impossessato delle passerelle così tanto da cominciare a fantasticare sulla sua morte. Esistono dei casi più o meno recenti - come quello delle release delle Pigeons Dunk SB o delle Nike Foamposite - che assomigliano a quelli degli anni ‘90, delle vere e proprie sommosse scatenate dalle release di sneaker, ma sono episodi marginali e isolati in un mercato che oggi è diventato da una parte democratico e dall’altra elitario. Come ha scritto Nicholas Smith nel suo libro Kicks: The Great American Story of Sneakers, le sneaker sono state una delle grandi storie americane degli anni ‘90, quella che ha raccontato anche l’emersione della black culture, «di cui le sneaker (e le Jordan in particolare) rappresentano una parte fondamentale», nelle parole di Cheresse Thornhill, la seconda footwear designer di colore di Nike.
In questo senso Kicks rappresenta un documento di storia dello streetwear, il primo film che riesce a raccontare l’origine e il passato di quella cultura che, in maniera folgorante, è riuscita a diventare un “unicorno” del mondo del mondo della moda. Non ci sono in circolazione tanti film come Kicks, forse perché i tempi per raccontare al meglio un mondo ancora “giovane” non sono così maturi. Per questo Tipping ha deciso di partire dal passato per ricostruirne di scorcio le origini e creare il primo film streetwear dell’era moderna.