Cosa hanno in comune Hedi Slimane, Riccardo Tisci e Demna Gvasalia? La professione, certo, ma non solo. Tutti tre, appena ottenuta la nomina di creative director di una storica maison di moda, hanno deciso, come prima cosa, di cambiare il logo dell’azienda. Un modo per affermare la loro presenza e, insieme, segnare l’inizio di un nuovo corso. Il rebranding è diventata una consuetudine tanto diffusa che ha portato molti a chiedersi quanto i loghi siano davvero importanti. La verità è che i loghi aiutano a vendere i prodotti, ma non solo. Sono potenti strumenti di comunicazione in grado di "facilitare il riconoscimento del marchio e differenziarlo dalla concorrenza, di suscitare l'interesse dei consumatori, di influenzare le decisioni degli investitori, trasmettere il significato di un marchio". Se pensiamo alla logomania, possono persino trasformarsi in trend.
Scegliere il logo giusto per la propria azienda diventa, così, determinante per avere successo. Nel corso degli anni sono diversi gli studi sulla
brand identity che hanno cercato di individuare le caratteristiche di design più incisive per coinvolgere i consumatori. Uno degli ultimi e più interessanti è stato appena pubblicato dalla
Harvard Business Review. Un gruppo di ricercatori guidato dai professori di marketing
Ammara Mahmood,
Mudra Mukesh e
Jonathan Luffarelli ha preso in esame 597 aziende per stabilire quale tipo tra loghi descrittivi o non descrittivi sia più efficace. Dallo studio è emerso che sebbene circa il 60% tra queste avesse optato per la seconda tipologia, i risultati migliori appartenevano alle compagnie con logo che "includeva almeno un elemento di design testuale e/o visivo indicativo del tipo di prodotto o servizio offerto". Pare che l’uso di un logo descrittivo tenda a “far apparire le marche più autentiche agli occhi dei consumatori”, aumenti la loro valutazione favorevole, la disponibilità dei consumatori ad acquistare e, di conseguenza, anche il profitto lordo. Questo è vero soprattutto per i progetti più piccoli e sconosciuti.
Il trio di professori suggerisce l’esempio di
Levi’s. Alla fine dell'800 la compagnia statunitense ha adottato il suo ormai iconico logo: due cavalli che tentano di strappare un paio di pantaloni di Levi's. La grafica alludeva all’idea di un prodotto resistente e consentiva ai nuovi consumatori, che erano rimasti colpiti dall’incisiva immagine, ma non ricordavano il nome del brand, di entrare in negozio e chiedere “i jeans con i due cavalli”. Mentre la fama di Levi’s cresceva fino a diventare planetaria, il suo logo si evolveva, allontanandosi dalla rappresentazione letterale di ciò che il marchio americano vende per approdare alla minimalista parola “Levi’s” inserita all'interno della forma "
Batwing". Questo
de-branding visivo conferma quanto scoperto dai ricercatori:
“anche se avere un logo [descrittivo] ha avuto un effetto positivo sulla brand equity sia per i marchi familiari che per quelli meno noti, l'entità di questo effetto positivo è stata molto minore per i marchi familiari […] è facilmente spiegabile con il fatto che, quando i consumatori hanno familiarità con un marchio, ne sanno di più e sono, quindi, meno suscettibili di essere influenzati dal design del logo.”
In poche parole, il potere di un logo diminuisce se parliamo di grandi e note aziende.
Victoria Buchananan, ricercatrice strategica senior presso
Future Laboratory, ha detto:
"Le persone chiedono trasparenza e autenticità, il che significa che i marchi non possono contare solo sul patrimonio e sui loghi … La sfida per i marchi è trovare il modo di fornire valore in modi nuovi a un consumatore che sta diventando sempre più cinico".
Dello stesso parere è anche Jasmine De Bruycker che ritiene il de-branding la metodologia giusta per conquistare una clientela più consapevole. Per la ricercatrice e creative strategist presso Base Design non basta più focalizzarsi su logo o storytelling, meglio puntare su brand value come, ad esempio, la sostenibilità. Osman Ahmed in un articolo per BoF, ha scritto:
“Oggi, un logo è semplicemente un motivo estetico nell'arsenale dei codici aziendali di un designer”.
A livello grafico, questo nuovo approccio più essenziale e diretto è particolarmente diffuso tra i luxury brand. Negli ultimi anni questa categoria è stata impegnata in una considerevole ondata di rinnovamento di logo con una generale tendenza alla semplificazione del design. Colossi famosissimi come
Saint Laurent,
Calvin Klein,
Balenciaga,
Balmain e
Burberry hanno abbracciato, quasi sempre in concomitanza con l’arrivo di un nuovo direttore creativo, una nuova pulizia tipografica, con una particolare predilezione per un font Sans serif. Una scelta così diffusa che in molti hanno parlato di
perdita identità dei loghi, facilitata dal fatto che molte aziende si sono affidate per il loro restyling agli stessi creativi come
Peter Saville o lo studio tedesco
Bureau Borsche (autore, recentemente, anche del
nuovo logo di Marcelo Burlon County of Milan). I motivi di questa rivoluzione estetica minimalista sono diversi, tra i quali spiccano simboleggiare un nuovo inizio, offrire una maggiore chiarezza e leggibilità adatta ai dispositivi mobili.
Armin Vit, co-fondatore del sito editoriale
UnderConsideration, ha confermato che modifiche al logo possono servire come “un'indicazione pubblica ai consumatori che qualcosa è diverso e che dovrebbero prestare attenzione”. Ed ha aggiunto:
“Quando c'è un nuovo direttore creativo con una nuova visione dei prodotti, un modo 'facile' per comunicare questo è con un cambio di logo che, si spera, stimola sia le vendite che l'interesse dei media”.
Tornando alla ricerca della Harvard Business Review, emerge che ogni marchio funziona nel contesto della propria categoria e dei concorrenti:
“I loghi descrittivi funzionano meglio per le aziende più piccole e sconosciute, perché stabiliscono i loro marchi come affidabili - anche per i consumatori che non ne hanno mai sentito parlare. Ma per le grandi e note aziende, il valore dei loghi descrittivi diminuisce: Le persone o si fidano o no dei grandi marchi e i loghi non sono in grado di fare la differenza.”