La notizia è di questi giorni: dopo Hong Kong e Copenaghen, Abercrombie & Fitch chiuderà i suoi store a Fukuoka, in Giappone, e a Milano. Lo shop situato all'interno dello storico palazzo in Corso Matteotti progettato da Giò Ponti dovrebbe abbassare le saracinesche già nel 2019.
Aperto il 29 ottobre 2009, il megastore a due passi dal Duomo nei primi anni era stato letteralmente preso d’assalto da appassionati di moda e semplici curiosi, disposti a fare lunghe file per accedere ai camerini, alle casse (l’attesa diventa una strategia per rendere il prodotto ancor più desiderabile), ma, soprattutto, per farsi fotografare con i
commessi-modelli. Come negli altri flagship store in giro per il mondo, anche quello italiano presenta tutte le caratteriste severamente imposte dalla direzione e studiate per conquistare i consumatori: arredamento bizzarro e ricercato, molto più simile ad un club che ad un negozio d’abbigliamento, fatto di lampadari di cristallo, canoe, palme, poltrone in pelo di animale, alce (simbolo del brand) imbalsamato. Il tutto avvolto da oscurità, musica a volume altissimo e l’inconfondibile
profumo che aleggia e impregna anche i vestiti. Ogni dettaglio è parte di una strategia di comunicazione basata sulla sovreccitazione sensoriale e volta a favorire la creazione di una particolare esperienza che il cliente vuole continuare a ripetere. Persino le frasi in inglese che i modelli rivolgono ai clienti (
How’re you doing? Hi guys, what’s going on? Thanks for coming!) non solo danno un tocco di internazionalità al negozio, ma consentono di vivere un’esperienza analoga a quella che si vivrebbe nel negozio sulla Fifth Avenue a NY e in quello londinese.
A segnare il destino dello spazio lombardo le pessime performance del titolo Abercrombie & Fitch in borsa. Nel primo trimestre fiscale l’azienda ha subito una perdita di 19,2 milioni di dollari e mercoledì 29 maggio ha ceduto il 24% a 19 dollari, portando il bilancio da iniziò anno a -3 e quello degli ultimi 12 mesi a -23,4%. Nonostante il risultato sia meno peggiore di quanto previsto dagli analisti, gli ultimi dati confermano il periodo di negativo che A&F sta vivendo. Secondo il CEO Fran Horowitz a pesare sui risultati del brand ci sarebbe stata l’incapacità si sfruttare appieno le potenzialità in Asia e i principali eventi promozionali su piattaforme come per esempio Tmall.
In realtà il problema è più complesso. Tra i tanti fattori che incidono sulla crisi della label ci sono i diversi gusti e comportamenti d’acquisto dei giovani che preferiscono risparmiare con lo shopping on line e dai loro brand preferiti cercano non solo buoni prodotti, ma anche prezzi competitivi, velocità di consegna, una certa etica nella produzione e varietà di scelta deve essere pressoché infinita come conferma Marcie Merriman, fondatrice della società di consulenza Primal Growth:
“Gli adolescenti di oggi sono radicalmente diversi da quelli di un tempo. Hanno infinite possibilità di scelta e rifiutano le divise. Hanno una marea di opzioni grazie ai negozi come Forever21 e Hennes & Mauritz (H&M), grazie al web e ai social media riescono a ideare uno stile molto più individuale. Abercrombie potrebbe rispondere al desiderio di distinguersi di questa generazione, ma i suoi prodotti di oggi non riescono a comunicare nulla di tutto ciò”.
Negli anni ’90 e inizio anni 2000, Abercrombie & Fitch, con i suoi modelli rigorosamente a torso nudo e in infradito anche d’inverno, era una delle mete più ambite per chi andava in viaggio negli States e i suoi capi erano altrettanto iconici, ma ora le cose sono cambiate.
Fondato nel 1892 a Manhattan da
David Abercrombie, A&F si presenta inizialmente come un negozio di abbigliamento sportivo ed equipaggiamento professionale che nel 1900 viene in parte acquisito da uno dei suoi clienti abituali, il facoltoso uomo d’affari
Ezra Fitch. Gli affari vanno a gonfie vele, fino a quando i due soci in disaccordo sul futuro dell’azienda, si dividono e Fitch rimane al comando. I suoi risultati sono ottimi: diventa il primo negozio a vendere abiti sia da uomo che da donna, veste
Charles Lindbergh durante la storica traversata aerea dell’oceano Atlantico del 1927 e personaggi del calibro di
John F. Kennedy e
Teddy Roosevelt. Da quando nel 1928 Fitch lascia la società, il business sopravvive a vari cambi di leadership, ma trova l’identità che lo ha reso popolare nel 1988 quando
Michael S. Jeffries diventa presidente. Il suo merito principale è aver puntato sul mercato dell’abbigliamento per
teenager, intuendone l’enorme espansione, e “promuovendo minigonne, polo, felpe e abitini, vendendole a prezzi fino a quel momento mai visti nell’industria teen”. Sempre sua è la filosofia satura di imput sensoriali che rende unici gli store del marchio così come la scelta di avere
commessi simili a modelli, inizialmente reclutati con un casting nei campus dei college statunitensi. A regolamentare le loro caratteristiche Jeffries redige un manuale di 30 pagine chiamato il “Look Book”. Nelle sue pagine si legge una lunga serie di rigidissime regole relative alla presenza fisica che gli addetti alle vendite ambosessi devono rispettare, come niente tatuaggi, niente gioielli, no make-up e capelli lunghi e ben curati per le donne, no a barba e baffi per gli uomini. Ovviamente obbligatori fisici asciutti e scultorei, esaltati anche nei cataloghi e nelle pubblicità sempre più pieni di riferimenti al sesso. L’aspetto hot di ragazzi e ragazze (sotto i 25 anni) diventa una delle attrattive principali di A&F che tocca il picco di popolarità nel 1999 quando viene citato nel testo della hit pop
Summer Girls degli
LFO. Tra le altre regole imposte da Jeffries ci sono: niente taglie superiori alla 44 e niente abiti di colore nero.
Tutte decisione che alimentano con il passare del tempo sempre più polemiche. Si parla di discriminazione ai danni di afroamericani, ispanici e asiatici (relegati a mansioni di secondo piano); di oltre 62.000 commessi costretti a spendere la quasi totalità del proprio stipendio in vestiti Abercrombie; di coltivare un’immagine diseducativa e inopportuna, “conformista, sexy ed esclusiva”, alimentando continuamente l’idea che i suoi prodotti debbano essere indossati solo da persone ricche e cool. Basta aggiungere a queste accuse l’immobilità statica dell’azienda e i gusti cambiati dei millennials per spiegare la crisi attuale.
Negli ultimi due anni il brand, con un nuovo team dirigente, ha cercato di rimediare ricostruendo la propria immagine, eliminando i modelli a torso nudo, concentrandosi sui jeans come prodotto ciave, puntando su testimonial più vicini ai suoi consumatori e adottando una visual identity più orientata verso la vita all’aria aperta, ai viaggi e meno a stereotipi. La nuova strategia, però, non è riuscita a salvare lo store milanese.